I Nativi Digitali, Una Generazione A Testa Bassa

Tragicomico
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I nativi digitali sono individui nati in un’era digitale dove non solo la presenza di internet e dei dispositivi digitali è onnipresente, ma lo sono anche i social e il metaverso. Ragazzi che crescono senza alcun metro di confronto con ciò che è stato, ignari di come poter vivere ed esistere senza il proprio dispositivo fra le mani, gli occhi incollati su di esso, il corpo perennemente ricurvo. Una generazione a testa bassa, con un atteggiamento passivo. Provate a privarli di tutto ciò che sia “connesso” e noterete in un battibaleno il manifestarsi di una profonda crisi di astinenza, con picchi di depressione e sconforto generalizzato.

I nativi digitali sono immagine e somiglianza di un progresso fine a se stesso, che ha perso il contatto con la realtà, in un mondo sempre più tecnologico, sempre più virtuale, figli di un’esistenza frivola e alienata, lontana dalle leggi naturali della vita e dai valori universali. Ma la colpa non è loro, bensì di chi questo mondo l’ha creato per loro.

Se la storia ha teso a minimizzare – a ragione o a torto – tutta la diffidenza verso il progresso di cui si sono fatte carico le generazioni passate, la rivoluzione digitale ha imposto la necessità di una riflessione globale relativa agli effettivi confini del progresso e dei rischi associati al culto della tecnica fine a se stessa.
A furia di inseguire l’ansia di novità e di voler a ogni costo trasformare l’ambiente circostante a nostra immagine e somiglianza, il genere umano ha dato origine a due singolari generazioni di nativi digitali, denominate “Generazione Z” e “Generazione Alpha”. Due generazioni che si trovano, loro malgrado, a vivere in spazi virtuali privi di quella dimensione sensoriale che aveva contraddistinto tutte le generazioni antecedenti.

Se, infatti, tutte le precedenti invenzioni tecnologiche che avevano sancito l’incedere del progresso, rientravano comunque in una dimensione segnata dalla spazialità, l’era digitale è riuscita a smaterializzare l’universo fisico, restituendone un surrogato. L’avvento del digitale ha privato molti oggetti fisici della loro natura spaziale, trasformandoli in semplici file d’archiviazione o trasmissione: miliardi di byte navigano in rete e hanno finito per sostituire libri, cd, vinili, videocassette, ricettari, racconti, miti, leggende e i luoghi stessi, rimandando un’immagine distorta del rapporto tra uomo e tecnica, tra uomo e spazio.

“Oggi siamo intrappolati in un mondo creato da tecnologi per altri tecnologi.
Ci è stato persino detto che “essere digitali” costituisce una virtù.
Non è vero: gli individui sono analogici, non digitali; biologici non meccanici.”
(Donald Norman – “Il computer invisibile. La tecnologia migliore è quella che non si vede”)

I nativi digitali hanno accesso a una quantità sterminata di dati, ma faticano a rendersi conto che quegli stessi dati, avevano senso solo se inseriti in una dimensione multisensoriale che rendeva l’accesso alla stregua di un’esperienza esaustiva. Comprare un libro prima della digitalizzazione, rappresentava un’esperienza completa, che ora potremmo definire quasi mistica: recarsi in una libreria, cogliere il silenzio che implicava la ricerca, il piacere di sentire il profumo della cultura, di reggere tra le mani qualcosa di potenzialmente delicato, da proteggere, per sentirne il “peso”.

La digitalizzazione degli spazi fisici, tuttavia, è andata ben oltre la dimensione degli oggetti, rendendo impalpabile e volatile anche la sfera dei sentimenti e dei rapporti umani. Nell’era digitale le persone hanno smesso di guardarsi negli occhi, di sfiorarsi, di lasciarsi e riabbracciarsi, rimanendo confinate in uno spazio virtuale che, appunto, nega la vera natura dello spazio con la propria esistenza. Le conversazioni avvengono, per la maggior parte, attraverso il filtro di uno schermo e mediante l’impiego di un linguaggio surrogato che riduce il concetto a un emoticon, l’ammirazione a un like e la riflessione a un meme.

Premesso che le generalizzazioni sono sempre fuorvianti e che esistono migliaia di giovani desiderosi di leggere un buon libro, di acquistare un oggetto dopo una ponderata valutazione o di passare un pomeriggio nel bosco, lontano dal fracasso digitale, la tendenza comune è, purtroppo, quella di relegare l’essere umano ad un’autosegregazione volontaria, dove neurotrasmettitori e ormoni si attivano a comando. Tutto questo porta i nativi digitali a credere che gli eventi salienti della loro vita (e spesso, del mondo intero), si svolgano all’interno del piccolo spazio virtuale nel quale sono cresciuti, fuori dal quale non vi è nulla di interessante.
Eccoli perennemente ricurvi sui loro dispositivi e incuranti di ciò che accade all’esterno, mentre si muovono lungo le direttrici degli spazi urbani senza prestare attenzione agli sguardi dei passanti, agli alberi in fiore, al traffico incessante, né ai monumenti eretti intorno a loro, perché il loro universo è stato svuotato di spazio, tempo e storia, e ricomposto in pochi centimetri quadrati.

“Eccola qui l’eroina del nuovo millennio, ecco la grande finzione che viaggia nell’etere e si spande come una pestilenza dentro le nostre case. Ecco la possibilità h24 di essere chi vogliamo quando vogliamo, di esporci senza metterci in gioco, di liberarci di tutto il veleno accumulato senza subirne le conseguenze, di inseguire l’amore senza scendere a compromessi, di riscattarci dai nostri fallimenti senza doverci rimboccare le maniche.”
(Dal mio libroLa cattiva abitudine di essere infelici”)

Isolati da tutto e da tutti, i post-millenials si sono fatti prigionieri di un mondo che offre loro gratificazione a comando, dove si accende la spia del piacere in corrispondenza di ogni interazione positiva e quella della tristezza, in corrispondenza di ogni stimolo negativo. Esattamente come accade al giocatore d’azzardo seduto al tavolo di un casinò, incapace di accorgersi che la notte è ormai al termine e che non farà ritorno a casa improvvisamente arricchito, i nativi digitali ricercano costantemente un riscatto attraverso il proprio dispositivo, convinti di poter lasciare il tavolo da gioco in ogni momento.
Seduti in silenzio a tavola, con la testa bassa e isolati da ogni suono di fondo proveniente dall’esterno, sono soliti ripetere “ancora un momento” nel caso si tenti di richiamare la loro attenzione.

“Ancora un momento”, come se nel corso dei successivi istanti quella interminabile ricerca di felicità surrogata potesse giungere al termine e consentire la liberazione da un mondo virtuale che essi stessi percepiscono come limitante. Già, perché le generazioni dei nativi digitali sono tendenzialmente consapevoli delle proprie giornate sprecate alla ricerca di uno stimolo indefinito, ma possiedono l’illusoria convinzione di potere uscire dalla gabbia digitale in qualunque momento, magari in corrispondenza di quell’ipotetica “vincita” che potrà venire reinvestita nel mondo reale.
Se provate a interrogare un giovane sulla natura della sua continua permanenza nell’universo digitale, nessuno di loro vi dirà che si sta divertendo, ma tutti vi racconteranno un movente per la loro segregazione volontaria.

Chi manda messaggi a un partner immaginario, chi fa finta di studiare in attesa della prossima notifica distraente, chi legge ossessivamente titoli su titoli, senza approfondire, per il timore che il proprio universo possa essere sconvolto, chi scarica musica senza neanche ascoltarla, chi si fonde il cervello in videogiochi, chi svolazza da uno stimolo all’altro: tutti ritengono di trovarsi lì solo fino a quando qualcosa di indefinito non restituirà loro la libertà perduta.
Il problema è che non vi è salvezza alcuna nello spazio virtuale, perché ogni stimolo ne richiama un altro e un altro ancora, fino a quando il tempo viene svuotato del suo significato più autentico, esattamente come accade per lo spazio, in un’emoraggia di solitudine dietro lo schermo.
Giornate che si susseguono identiche, rinchiuse in un display dove la vita perde quella vivacità che la rende vita, soprattutto in un’età nella quale bisognerebbe vivere a testa alta, consapevoli della grande opportunità che si spalanca per chi ha fame di esperienza.

Le nuove tecnologie comportano nuove responsabilità da parte degli adulti.
(Paolo Crepet – “I figli non crescono più“)

Se togliere a queste generazioni la propria prigione digitale potrebbe rivelarsi un’operazione infruttuosa, controproducente e addirittura pericolosa, sta a noi cercare di offrire ai più giovani un numero crescente di alternative in grado di diversificare il loro atteggiamento, per far sì che da nativi digitali possano diventare consapevoli digitali.
Con tutta l’umiltà di cui solo i saggi sono capaci, è nostro dovere accompagnarli in questo percorso di crescita e rimediare ai nostri errori, avvicinandoci con prudenza al loro modo di comunicare, così che possano alzare lo sguardo, guardarsi attorno e percepire finalmente che lo spazio non è tutto rinchiuso in pochi centimetri di pixel.

Tragicomico

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8 commenti

Eleonora 17 Marzo 2023 - 13:46

Purtroppo non penso sia facile trovare il pulsante “reset”.
Nessuno dei miei familiari, me compresa, abbiamo uno smartphone: ci siamo concessi questa piccola libertà.
“Il significato delle cose non sta nelle cose in sé, ma nel nostro atteggiamento verso di esse” citando Antoine de Saint-Exupéry

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Tragicomico 17 Marzo 2023 - 16:36

Credo sia impossibile procedere con un reset, quello che si può fare è educare queste nuove generazioni al confronto, far sì che possano sviluppare sin dai primi anni dell’infanzia delle esperienze che non siano solo digitali e virtuali, ma di interazione con il prossimo, con Madre Terra, sperimentando situazioni di vita del tutto analogiche, per offrire quel senso di proporzione che ormai si sta perdendo in questa virtualità senza tempo e spazio.

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Fabrizio Mauro 17 Marzo 2023 - 21:48

Ciao Ivan, i nativi digitali una generazione in cui la tecnologia digitale è già diffusa, e quindi hanno potuto apprendere l’utilizzo fin dall’infanzia, e con la diffusione di massa dei PC a interfaccia grafica e dei sistemi operativi a finestre, la cosa adesso sembra sfuggita proprio di mano con tutti questi DEVICE sempre continuamente connessi. Ho scritto più volte nei commenti dei tuoi articoli che nelle favole la strega cattiva ha lo specchio nero, i DEVICE di oggi sono lo specchio nero, solo che tengono prigionieri le menti delle persone con catene invisibili, creando persone pensate e non pensanti, che vivono di opinioni e non hanno idee e pensieri propri, portando a non vivere una realtà vera, non avendo contatto con le persone, dal linguaggio non verbale, al confronto diretto. Ragazzi con menti che subiscono lavaggio del cervello da un numero di informazioni esagerato. Sempre chini con lo sguardo sui loro DEVICE, sembra un campo di concentramento mentale con prigionieri volontari. Che dire l’educazione è il nostro unico mezzo per agire sull’anima di questi nativi digitali, mi chiedo come mai pochi arrivino a capire che spaventoso elemento di decadenza costituisca un sistema di isolamento e diseducazione usando questi DEVICE sempre connessi, invece di educare la gioventù, la degrada e la corrompe.

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Tragicomico 18 Marzo 2023 - 12:26

Il progresso tecnologico, negli ultimi due decenni, ha completamento invaso le nostre privacy rendendoci sempre più anaffettivi nei rapporti sociali e completamente dissociati in tutto e per tutto. I nativi digitali in questa situazione ci sono nati, sono vittime innocenti e fragili, le conseguenze di questo disastro le vediamo nelle loro azioni quotidiane, sulla loro pelle, nel loro modo di stare al mondo. A loro manca il confronto con ciò che era la realtà pre-internet, pre-device, ecco è questo l’aspetto che tutti insieme dovremmo rivalutare, perché fra 30/40 anni nessuno saprà più di com’era il mondo prima dell’invasione dei dispositivi “sempre connessi”.
Bisognerebbe educare a vivere da disconnessi, ecco tutto.

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paolo 22 Marzo 2023 - 8:53

Caro Ivan, si potrebbe dire che la vita sia diventata semplice “meccanicismo”, tuttavia è necessario osservare che un tempo lo era già a livello materiale e oggi si è solo manifestato a livello mentale. Scendendo nel problema si può dire che si è solo manifestato ciò che si è coltivato da tempo dentro: da fuori verso il dentro, di generazione in generazione. Delega, desideri, bisogni, stanchezza, irrequietezza, distacco, giudizio, rabbia, dolore ci portano verso esperienze sempre più devastanti e se questo meccanicismo diventerà anche interiore, è probabile che l’anima esploderà o imploderà in qualcosa di inaspettato, perché se la natura si lascia manipolare fino ad un certo punto, l’anima no. Convinzione personale, ovviamente. Ma i mali di oggi sono intimamente legati a questa pressione esterna che potrebbe diventare motivo per comprendere meglio le nostre scelte e le nostre responsabilità. Pensiamo che i genitori hanno nei confronti dei loro figli e nipoti una grave e pesante responsabilità, vero, però in realtà tutti siamo responsabili. Perché i figli non sono una proprietà ma sono figli del mondo e quindi anche nostri. Un senso di responsabilità che dovrebbe farci agire anche quando non ci riguarda e possiamo prenderci la libertà di riprendere un parente, un collega, un amico, uno sconosciuto su come tratta i suoi figli. Certo, dobbiamo aspettarci una reazione negativa che sarà più forte quanto più le nostre parole colpiranno la verità. Troppe volte vedo bambini lasciati da soli con smartphone o tablet oppure come la scuola addestri e i genitori siano pronti a difendere dai voti negativi più che dalla pessima qualità dell’istruzione. Si parlava di analfabeti funzionali a fine del 2020 e inizio 2021, dovremmo domandarci quale sia la nostra capacità a rielaborare i nostri pensieri, quanto siamo consapevoli di ciò che ci accade attorno. Perché vedo, mai come oggi, persone che viaggiano sulla strada come se ci fossero solo loro.

E c’è di peggio all’orizzonte: l’identità digitale legata all’intelligenza artificiale. Sostituirà l’essere umano o peggio finirà per potenziare lo stesso essere umano. Ma quella potenza è virtuale, illusoria e il suo scopo nasconde ben altre intenzioni. Se l’essere umano distacca la propria mente dal proprio corpo può immaginare qualsiasi cosa, anche di avere poteri paranormali e, il paradosso, è che potrebbe funzionare, aiutata magari da opportune stimolazioni. Il distacco agevolerebbe questa capacità umana e il controllo del corpo ne impedirebbe un uso cosciente che invece potrebbe essere usato da terzi. Fantascienza? Chissà. La ricerca dei poteri paranormali è sempre stata una grande attrattiva per la scienza e non credo affatto che non lo faccia ancora, di nascosto. In questi decenni la scienza ha però capito una cosa: non si può controllare una persona con questi poteri e quindi vanno preparati in modo da poterli controllare da lontano, ecco la tecnologia e l’imperativo alle meraviglie dell’uomo macchina, dell’uomo potenziato. Fantascienza? Temo che in realtà questo sia già passato.

Ritornare indietro non è fare ciò che si faceva, ma fare quello che non si è mai fatto: prendere in mano la propria vita, la propria salute, le proprie scelte e responsabilità. Non significa negarsi un cellulare ma usarlo in modo corretto. Non significa non usare l’auto ma usarla con giudizio. Sono strumenti, strumenti di oggi, almeno fino al momento che passato l’orizzonte del “meccanicismo” non ci si accorge che molte cose possono essere fatte senza la necessità di uno strumento. Uno strumento mette distanza, il corpo nel suo essere qui e ora no. Io poggio una mano sul corpo di una persona e vedo la sua malattia, io guardo una persona e so cosa prova, ascolto le sue parole e conosco la sua storia, amo una persona e vado oltre ogni immaginazione dove non ci sono parole a descrivere cosa provo e mai penserò che amo. Abbiamo un corpo che supera qualsiasi strumento ma non sappiamo usarlo, tendiamo e crediamo che ci voglia una mente, una tecnica, una meditazione mentre non è così. Anche una tecnica è un apparato in più che ci divide dall’essere noi stessi.

Chissà, un giorno, scopriremo che vivere è assai più semplice di quanto pensiamo.

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Tragicomico 22 Marzo 2023 - 14:26

Sì Paolo, credo che nel passaggio di testimone fra una generazione e l’altra ciò che si è perduto è proprio la semplicità, quel vivere genuino, naturale, senza troppi orpelli ma fatto di essenzialità. Generazioni che si sono riempite l’esistenza di chincaglieria materiale, fino a diventarne succubi, a dover trottare otto e passa ore al giorno per mantenere il proprio status e ora, generazioni dipendenti da qualcosa di più sottile, di digitale, ma pur sempre effimero.
Ecco, quella semplicità di una volta, ritrovarla e condividerla, questa potrebbe essere l’unica ancora di salvezza a disposizione, prima che sia troppo tardi, prima che si perda ogni contatto con la realtà, con la vita, che in fin dei conti chiede solo di essere vissuta.

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paolo 23 Marzo 2023 - 7:36

Già, come al mio solito troppe cose da dire in così poco tempo o spazio. 😉 Dimostrazione di una pressione che va ancora un po’ elaborata per renderla più semplice e fruibile, senza banalizzarla. Perché la semplicità come la verità non è banale ma è profonda, essenziale e sempre reale. Quando si scrive è difficile esprimere cosa si pensa, si vive, si crede; ben più facile sarebbe poter interagire di persona e chissà se un giorno i lettori e scrittori di questo blog potranno trovarsi di persona. Una domenica per guardarsi negli occhi e scoprire non solo persone ma mondi incredibili e colorati.

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Tragicomico 23 Marzo 2023 - 14:27

L’idea è fattibile Paolo, è un progetto che mi ronza in testa da un bel po’ e sono d’accordo che in un articolo, come in un commento, ciò che può essere scritto e descritto è soltanto qualche goccia di un mare di riflessioni. A presto!

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