Sempre più onnipresente nelle nostre vite, la parola italiana “schermo” deriva dal verbo germanico skirmjan, che letteralmente significa “proteggere”. Uno schermo è, pertanto, quella porzione di un dispositivo rivolta a proteggere tutto ciò che è troppo fragile per potere essere toccato o manipolato, senza riportare danni che ne inficino il funzionamento intrinseco.
Gli schermi tecnologici proteggono i pixel di un computer, di uno smartphone o di un televisore da quel contatto accidentale che potrebbe rendere il dispositivo inservibile.
In un mondo in cui gli esseri umani e le loro mutue relazioni vengono sempre più orientati in direzione di un ambiente simulato e artefatto, l’elemento da proteggere tramite la presenza di uno schermo rischia di diventare, in un’accezione metaforica, la vita stessa, tracciando così un sentiero di solitudine relazionale.
Come se ci trovassimo a vivere all’interno di una camera iperbarica o di una teca di cristallo, isolati dal mondo l’esterno, stiamo sempre più rinunciando a ogni contatto umano che non si trovi ad essere rigorosamente schermato, proprio perché gli schermi ci conferiscono una falsa illusione e un vago senso di protezione.
Quando accediamo ad una piattaforma social e cominciamo a esternare i nostri pensieri e le nostre emozioni, in cerca di una qualche gratificazione o approvazione, lo facciamo attraverso un filtro che distorce e deforma quella che è la nostra interiorità autentica, restituendone un ritratto protetto, in quanto schermato.
Sempre più spesso ci sorprendiamo nello scrivere frasi che mai e poi mai pronunceremmo ad alta voce di fronte a un nostro amico o conoscente, perché le relazioni schermate sono prive di quel coinvolgimento emotivo che si palesa quando due o più cuori si trovano a poca distanza fra loro.
Quando ci esprimiamo attraverso il filtro di uno schermo, siamo consapevoli di non poter vedere la reazione del nostro interlocutore. Le relazioni simulate sono prive di sorrisi, di abbracci e di lacrime e, proprio per questo, ci appaiono protette.
Mentre un rapporto reale ci può agevolmente turbare con il suo carico di coinvolgimento emotivo, una relazione protetta appare molto più semplice da gestire, perché si limita a scambiare caratteri scritti con altri caratteri scritti, senza mai giungere a pieno compimento.
Senza pugni sbattuti sul tavolo, pianti, risa, bocche stupite, mani che si stringono e sguardi che si incrociano, le relazioni umane moderne si riducono ai minimi termini, diventano accessibili fino al punto da poter venire di replicate all’infinito, secondo uno schema che si ripete senza troppi turbamenti, ogni volta in cui ci sentiamo soli.
Anestetizzati da quell’eccesso di protezione che gli schermi ci regalano a poco prezzo, vaghiamo così per ore sul web in cerca di un altro schermo e di un’altra solitudine da congiungere alla nostra, magari solo per pochi minuti, solo per pochi scambi di grafemi, due messaggi vocali, pronti ad interrompersi alla prima difficoltà. Come satelliti che gravitano intorno ai pianeti, giriamo l’uno nell’orbita dell’altro, ci avviciniamo per poi allontanarci, ci attraiamo in modo vicendevole, senza mai arrivare a toccarci davvero, senza mai alzare lo sguardo al cielo.
“Un mondo di pavidi, egocentrici robottini che si danno appuntamento online e che, delusi dalla propria vita, ne costruiscono una nuova di zecca, dove tutto è a portata di mano tranne quello che è vero, dove gli estranei si chiamano amici e la vicinanza virtuale scava voragini sempre più profonde e inconsolabili. Sempre più connessi, sempre più distanti.”
(Dal mio libro “La cattiva abitudine di essere infelici”)
Persuasi dalla postmodernità di essere immersi nell’apoteosi delle relazioni sociali, siamo in realtà sempre più soli e distanti, costretti da noi stessi a guardare da lontano tutto ciò che vorremmo stringere tra le mani, anche a costo di poter infrangere la nostra fragile natura. Se la genesi di internet e dei social network ha aperto orizzonti di possibilità di fronte al genere umano del tutto inesplorati, allora noi abbiamo fallito nel non riuscire a comprendere che un mezzo è tale solo se non lo si carica di adorazione feticista.
Le varie piattaforme online sono sorte per congiungere persone distanti, per semplificare la comunicazione con amici e conoscenti e per porsi come semplice preambolo, di fronte all’inizio o alla prosecuzione di una relazione reale.
Se ci limitassimo ad impiegare i servizi di messaggistica come mezzo per organizzare una cena, se usassimo i social network per dare il “la” ad una discussione destinata a concludersi davanti ad un calice di vino o per scambiare fotografie con parenti distanti, in previsione di poterci riabbracciare, riusciremmo a colmare agevolmente quel senso perenne di solitudine e inadeguatezza che ci pervade da capo a piedi.
E invece no! Pare che l’attrattiva delle lucine delle notifiche, dei suoni e dei like offerte dagli ambienti social sia talmente forte da portare lo strumento a farsi surrogato di ciò che eravamo e di ciò che, in cuor nostro, vorremmo rapidamente tornare a essere. Più tempo passiamo con i nostri dispositivi fra le mani e meno ci accorgiamo di quanto quell’eccellente mezzo di comunicazione si sia rapidamente tramutato in un feticcio in grado di rimpiazzare il naturale oggetto della nostra emotività, e di offrirne in cambio una versione debole, rigorosamente schermata.
Ne consegue non solo un continuo isolamento emotivo, ma anche geografico: perché dobbiamo uscire dalla nostra stanza, dalla nostra situazione di esuli sociali, quando magari fuori piove, soffia il vento o il sole è troppo rovente?
Dietro la protezione offerta da uno schermo, persone e luoghi ci appaiono sicuri. Nella teca domestica nella quale ci siamo rinchiusi non si piange, non ci si ferisce, non si scivola, non ci si bagna e non si vive per l’altro. Dietro lo schermo, con il mondo lasciato fuori a marcire, ci immaginiamo di avere finalmente trovato la nostra “confort zone” e quella pace interiore che ricerchiamo avidamente da quando siamo nati.
Ma è una pia illusione: come non c’è pace senza conflitto, non c’è serenità senza turbamento, non ci sono relazioni senza lacrime e sorrisi. Rinunciare a vivere non è un mezzo per affermare la nostra esistenza, come pensiamo ogni volta in cui effettuiamo il nostro login quotidiano, ma la sua esatta negazione.
Gli schermi negano la vita e la soffocano, dal momento che noi non siamo un ammasso di pixel, ma entità complesse che non necessitano di un eccesso di protezione di fronte alle nostre fragilità.
Nel mondo reale possiamo anche romperci, piangere, urlare e litigare, ma ogni volta ne usciremo rafforzati e volenterosi di ricominciare, a differenza di quanto accade mentre ci troviamo rinchiusi dietro ai nostri schermi, protetti da noi stessi e anestetizzati di fronte alla nostra naturale voglia di vivere. Di vivere per davvero.
4 commenti
Ciao Ivan, bellissimo il tuo articolo, la febbre di stare davanti a uno schermo sta dilagando dai giovani ai meno giovani, persone che guidano guardando il telefono, famiglie a pranzo che ogni uno guarda il suo telefono, ogni uno vive una vita sua anche quando sono in gruppi. Come già detto, la sostituzione di relazioni virtuali a quelle reali, in tutti gli ambiti, grazie all’uso degli schermi è arrivata a un punto nel quale viene considerato normale ritenere “amiche” persone che non incontreremo mai.
Le relazioni sono fatte di un rapporto fisico, e non intendo solo nei momenti di intimità, per esempio tra i partner, ma anche nelle normali interazioni. Ricordo che la comunicazione ha una base non verbale, con effetti positivi sul rilascio di ormoni e la sensazione di affetto e felicità. Io preferisco ancora i rapporti con gli esseri umani in prima persona, sarò all’antica ma mi piaccio così. Mi sono tolto da tutti i social perché sono vampiri del tempo, dunque quando sono davanti a uno schermo rimango il necessario per le cose utili. Buona vita a tutti.
Caro Fabrizio, sarebbe bello se il tuo esempio di vita, con ancora addosso un vissuto autentico, riuscisse ad entrare nelle scuole per offrire ai giovani l’opportunità di capire che esiste una possibilità di vita alternativa, dove il web è ancora una risorsa, un mezzo e non una dipendenza, dove i dispositivi sono strumenti che facilitano l’esistenza senza alterarla, senza rendere il vissuto un ologramma di qualcun altro.
Grazie per il tuo messaggio, un abbraccio.
La linearità con cui esprimi concetti semplici e chiari è fantastico, mi domandavo però: non sarà che li vedo così semplici e chiari perché da tempo ci lavoro sopra? Perché chi ha perseguito per anni la conoscenza di se stesso vede più chiaramente ciò che accade fuori mentre chi è dentro nei giochi è così avviluppato che è cieco o meglio, ha degli occhiali che ne deformano il senso. Il gioco dello schermo non è tanto diverso da quello di un tempo che chiamavamo maschera e durante il carnevale potevamo essere più veri dietro l’anonimato. Il fatto è che dietro lo schermo o la maschera mostriamo la nostra debolezza, la nostra arroganza, la nostra umanità. È un problema? No, perché potrebbe essere l’occasione per conoscere se stessi e quindi migliorarsi. Ciò che ci ferma è il giudizio o meglio il pregiudizio, sia rivolto a noi o agli altri. Giudichiamo senza renderci conto di come ci stiamo comportando, della nostra natura, delle origini di quel giudizio e quel che è peggio lo facciamo contro uno sconosciuto. Dietro lo schermo attacchiamo, discutiamo, giudichiamo senza avere dati reali in mano e non comprendiamo che lo stiamo facendo in realtà contro noi stessi. Che occasione persa! Comunque sia, il problema non è lo schermo o la maschera ma, come sempre, il nostro modo di agire, di pensare, di scegliere. Anche io ho visto come i giovani non siano in grado di reggere i rapporti diretti e ricordo quello che si diceva ai miei tempi quando ci si isolava dal mondo con i walkman. La storia si ripete solo con strumenti più potenti. Possiamo fare qualcosa? Lo possono e, dal mio punto di vista personale, lo devono fare gli adulti, anziani compresi: sospendere il giudizio, riflettere, ascoltare e cambiare il loro modo di vivere e pensare. Un processo interno senza il quale c’è il rischio di ripetere gli stessi errori di un tempo, di un passato non lontano, giusto ieri. Cambiare è possibile ma non certo con un click.
Sì, gli errori si ripetono e non sono apparsi certo oggi. Così come una pallina di neve che scende dalla montagna alla fine acquisisce la forza di una valanga, allo stesso modo certi errori del passato ora diventano dirompenti e globali. Non sono gli strumenti a essere il problema, anche se questi alimentano il problema nel momento in cui diventano poco disciplinati e male regolamentati. Il problema, come giustamente scrivi, è l’azione del singolo, un’azione che ormai è abitudinaria, un’azione di riflesso e scarna di quel pensiero critico che si opporrebbe a circostanze alienanti, come quelle che abbiamo tutti i giorni davanti ai nostri occhi. Cambiare si può e si deve, ma ciascuno deve fare la sua parte.