Essere Responsabili Di Fronte All’Altro: Quello Che La Pandemia Può Insegnarci

Tragicomico
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Viviamo un periodo storico che, senza troppe difficoltà, può essere definito di transizione. Sotto molti aspetti, infatti, il mondo per come appariva fino a qualche decennio fa è quasi del tutto scomparso. Al suo posto però non si è ancora concretizzato nessun paradigma che possa dirsi veramente nuovo. L’epoca che sarà, che sembra sempre sul procinto di avvenire sospinta da uno sviluppo tecnologico forse troppo ingenuamente osannato, è come se venisse rallentata da idee, visioni e pratiche che appartengono ancora al passato.

Prendiamo ad esempio l’urgenza di convertire la produzione industriale, ma anche il consumo individuale, tramite delle pratiche sostenibili, ecologiche, più green e consapevoli. È il nostro stesso Pianeta che ci richiede una svolta in questo senso: il cambiamento climatico è sotto gli occhi di tutti, ma le istituzioni politiche che dovrebbero occuparsi della questione non riescono ad essere decise e unite per arginare il problema. Sappiamo che le risorse di cui disponiamo sono limitate ma continuiamo a sfruttarle nonostante delle alternative ci siano già, così sperperiamo quanto la natura può offrirci in un anno ben prima che questo anno sia finito perché crediamo ancora nella folle e cieca corsa del progresso. 

Prendiamo anche l’incredibile sviluppo tecnologico che l’informatica ha reso possibile. Possiamo archiviare una quantità incredibile di informazioni in dispositivi che possiamo mettere in tasca, abbiamo a nostra portata di click praticamente buona parte di tutto il sapere che l’umanità ha prodotto nel corso della sua storia, ma l’ignoranza continua a dilagare come un fiume in piena. Così come siamo interconnessi in un modo inimmaginabile fino a qualche decennio fa, ma la distanza fra di noi come individui fisici è aumentata a dismisura.

Gli ambiti in cui è possibile riconoscere quanto l’attuale periodo storico sia un periodo di transizione sono ancora molti altri, da quello politico, con la crisi delle democrazie rappresentative ma anche con l’assenza di una vera e propria alternativa, a quello economico-sociale, con i colossi del web che impoveriscono sempre più le piccole realtà contribuendo così ad acuire il divario, ormai pressoché incolmabile, tra i pochi che hanno troppo e i tanti che hanno sempre meno. Oppure con la comparsa di una nuova preziosa merce: i nostri dati personali che vengono scambiati con troppa leggerezza, quasi fossero un tradizionale prodotto da mercato.

In questo quadro, già di per sé abbastanza instabile, la pandemia del Covid-19, direttamente o indirettamente, sta cambiando in maniera radicale anche la nostra socialità.

La diffusione del virus infatti, ha messo in evidenza non solo la fragilità del sistema economico-sociale mondiale, nel quale se spezzi un anello della catena è la catena tutta che si rompe, ma ci ha anche reso evidente, per differenza, quanto valeva il nostro modo di rapportarci agli altri, anche quello più banale, anche quello più quotidiano. Soprattutto in un paese come il nostro, che ha fatto della convivialità il suo tratto distintivo. Ciò che ci appariva naturale, come abbracciarsi e salutarsi con un bacio con un conoscente o l’andare ad un concerto ammassati l’uno sull’altro, ora che ci viene sconsigliato – se non addirittura vietato – assume ancora più valore.

Probabilmente un valore che neppure conoscevamo, tanto ovvio e scontato ci risultava prima. In altre parole: scopriamo quanto valeva la nostra libertà sociale solo ora che ci viene limitata. E lo scopriamo, appunto, per differenza, confrontando ciò che potevamo fare prima con ciò che dobbiamo fare ora.

A questo proposito mi sento di formulare una domanda: perché tutti noi dovremmo accettare che il nostro modo di vivere, le nostre abitudini quotidiane e la nostra libertà sociale vengano limitate?

La domanda è volutamente provocatoria. La sua risposta, abbastanza scontata. In alcuni casi però, anche la domanda la cui risposta sembra evidente e scontata deve lo stesso essere formulata. La si deve formulare per tentare di rivedere la questione posta in maniera più chiara e profonda, cioè per comprendere meglio quali sono le ragioni che ne stanno a fondamento. Perciò, nonostante la risposta sia evidente oltre che di buon senso, credo che formulare tale domanda possa aiutare a comprenderne meglio alcune ragioni intrinseche.

Il motivo che ha guidato la scelta delle Istituzioni di limitare la nostra libertà è, appunto, quello di tentare di controllare la propagazione del virus con quanto ci è possibile. Mantenere la distanza tra me e il mio vicino, usare la mascherina, evitare assembramenti. Alla base di queste pratiche di sicurezza personale c’è però un principio etico che non tutti riescono e vedere o percepire come “normale”, ma che personalmente trovo molto profondo, e che credo valga la pena rendere evidente. Un principio che riguarda direttamente la responsabilità che ciascuno di noi ha nei confronti del proprio altro.

Non si è mai soli, specie in una società come la nostra, che fa del rapporto e dello scambio con l’altro il suo fondamento. Per questo, devo limitare il mio raggio d’azione per salvaguardare la salute del mio prossimo. Posso anche essere in ottima salute, posso anche essere infetto senza avere sintomi, tuttavia chi mi sta di fronte può non reagire allo stesso mio modo ad un eventuale contagio. E chi mi sta di fronte può essere qualcuno a me caro, certo. Ma non solo. Non sono solo i miei affetti coloro che devo proteggere.

Il mio prossimo è anche chi mi capita di incontrare per strada, la persona che mi sta accanto sull’autobus, il vicino con cui non scambio mai neppure un saluto, l’estraneo che mi chiede l’elemosina. È anche lui che io devo proteggere. Essere responsabili significa pensare agli altri nel mentre faccio delle scelte. Essere responsabili in questo particolare momento storico significa prendere delle decisioni tenendo fermo il principio della cura del mio prossimo. Significa sentirsi parte di una comunità di individui nei confronti dei quali io devo mantenere un atteggiamento di rispetto.

Questo rispetto deve riguardare la diversità in ogni sua declinazione, cioè deve riguardare l’altro come fonte inesauribile della varietà del vivere comune, deve riguardare ogni alterità come quella ricchezza che eccede il mio piccolo mondo e che io non devo mai avere la pretesa di poter comprendere a pieno.

Sì, perché è l’altro a me sconosciuto, l’altro che eccede ogni mia comprensione, l’altro che è irriducibile a me e ai miei schemi interpretativi, che è origine di quella differenza che fa della vita un qualcosa di vario e colorato, un qualcosa che ad ogni istante è unico, irripetibile, sorprendente. E vale la pena prendersi cura, prima di curare.

Essere responsabili nei confronti dell’altro significa pertanto riconoscere il valore dell’esistenza, di quel principio sacro che è il diritto alla vita. Avere cura anche di chi non conosco vuol dire avere a cura anche me stesso e il mio mondo; significa contribuire a salvaguardare il mondo come luogo dalle molteplici possibilità. Essere responsabili nel periodo di transizione che stiamo vivendo, significa che sta a noi scegliere che mondo dovrà nascere, partendo da una semplice riflessione: vogliamo un mondo che aiuta e rispetta l’altro o un mondo che calpesta ancora il prossimo?

“La maturità inizia a manifestarsi quando sentiamo che la nostra preoccupazione
è più per gli altri che per noi stessi.”
(Albert Einstein)

Tragicomico

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4 commenti

artemio sensi 20 Novembre 2020 - 10:45

Parole da rileggere perche’ contengono valori eterni.
Inoltre se vi e’ un Altro da rispettare anche io, a mia volta, saro’ l’ Altro da rispettare e cosi’ moltiplicato per centinaia, milioni, miliardi di Altri e di se stessi e sara’ come dici Tu, Ivan, un mondo davvero migliore.
grazie.

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Tragicomico 20 Novembre 2020 - 14:44

Grazie Artemio, sei sempre prezioso con i tuoi interventi e auguriamoci che le persone possano approfittare di questa pandemia per interiorizzare un concetto tanto semplice quanto vitale. Per tutti.

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paolo 24 Luglio 2023 - 19:57

Premesso che ci si può prendere cura del mondo se si sa prendere cura di se stessi, lo stesso moto vale anche per il rispetto. Quando dividiamo le persone in buone e cattive sulla base di un giudizio creato da terzi, senza informarci, senza ascoltare l’opinione dell’altro, senza prendere in considerazione che possiamo sbagliarci, che possiamo essere stati ingannati, senza prendere la responsabilità delle proprie scelte perché qualcuno che riteniamo importante l’ha detto, stiamo facendo un grave errore. Non perché stiamo sbagliando giudizio ma perché il primo moto che stiamo facendo è la divisione e ci sentiamo parte dei “giusti”, crediamo di fare la cosa giusta, di essere dalla parte della verità, del bene e magari anche della maggioranza. Crediamo che la maggioranza abbia sempre ragione ma la verità è una sola: la maggioranza è solo un numero e non è la verità. Così, semplicemente, ignoriamo la responsabilità morale di quel giudizio o pregiudizio, ignoriamo che dovremo rispondere non una ma di ogni singola volta quella scelta, ignoriamo che quella persona poteva aiutarci e aprirci ad una nuova visione, ignoriamo … Tutte le volte che ci sentiamo tra i giusti sarebbe opportuno fare un passo indietro e mettere un pizzico di dubbio per scoprire su cosa poggiano le nostre piccole verità, perché la verità assoluta non esiste ma la verità di due persone, se ognuno comprende il contesto dell’altro, può solo aumentare.

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Tragicomico 25 Luglio 2023 - 9:47

Questo tuo commento, caro Paolo, è di una efficacia prorompente, sarebbe da stampare e appendere nelle scuole, per dare modo alle nuove generazioni di comprendere che la divisione crea soltanto isolamento e una popolazione di individui soli e isolati, chiusi nelle proprie scatole di cemento con il dito sempre puntato, è debole, facilmente dominabile.
Grazie per averlo scritto, un abbraccio!

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