Il binomio “bambino interiore” e “reparenting” potrebbe far storcere il naso a qualcuno: troppa new age, troppo astratto, troppo inglese. Figuriamoci se a questi due concetti aggiungiamo la possibilità di prendere il posto dei propri genitori in un processo di rieducazione. Una situazione che risulterebbe totalmente fuori dal comune, per non dire bizzarra o addirittura contro natura.
Ma cosa succederebbe se vi venisse detto che il lavoro di reparenting sul bambino interiore potrebbe rivelarsi essenziale per la guarigione emotiva dell’essere umano?
Pensiamo a noi stessi come a degli adulti “grandi e vaccinati” solo perché anagraficamente abbiamo raggiunto la maggiore età, perché possiamo votare, guidare una macchina, abbiamo una proprietà, un mutuo e siamo obbligati a timbrare un cartellino ogni giorno. Bell’affare!
La verità è che molti adulti portano dentro di sé bambini feriti, incompresi, abbandonati e forzati a crescere con un’urgenza che è tipica di una società pensata e progettata dall’adulto, per l’adulto. Spesso non lo vediamo – o non lo vogliamo vedere – ma copriamo i traumi infantili riempendo la nostra vita di impegni, scadenze, futilità varie e lavori infiniti; siamo completamente immersi in tutto ciò che facciamo, mentre continuiamo a ripeterci che quel lamento interiore, quel pianto da bambino non è nulla, che c’è ben altro di più impellente e importante a cui pensare.
La gioia pura e sincera che provavamo quand’eravamo bambini è da un bel pezzo che non la sperimentiamo più, i nostri sogni pigri e grigi non possono nemmeno lontanamente essere comparati a quelli sgargianti e rocamboleschi che avevamo a 4, 5 o 6 anni.
Sei cresciuto, penserai, è normale. No, non lo è. Ti sei solo adeguato ad un mondo opaco e maleodorante, pensando che quello fosse il tuo compito e il tuo posto. E per farlo hai sacrificato unicità, energia e vocazioni.
Per tornare a quel bambino, per accedere al suo infinito potenziale, potrebbe essere necessario un autentico processo di rieducazione (educare, dal latino educĕre ‘trar fuori, allevare’). Nella fattispecie, il tuo bambino interiore ha bisogno che tu riconosca ed elabori le sue esperienze dolorose.
Qualunque sia la fonte del trauma, lavorare con il tuo bambino interiore può aiutare a guarirlo. Questo lavoro, però, non è da considerarsi come un viaggio indietro nel tempo quanto piuttosto un viaggio interiore. Solo allora ci si sentirà abbastanza sicuri da poter uscire allo scoperto e giocare liberamente al gioco della vita.
“Gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce,
ma la vita li costringe ancora molte altre volte a partorirsi da sé.”
(Gabriel Marquez – “L’amore ai tempi del colera”)
Il concetto di “Puer aeternus” (eterno fanciullo) ha origine nella terapia junghiana.
Jung suggerisce che “l’archetipo del bambino” sia la prima pietra miliare nel processo di individuazione e di conseguente formazione del Sé.
Il lavoro con il bambino interiore si basa su una semplice quanto fondamentale osservazione: tutti gli adulti sono stati bambini una volta. Quei bambini dentro di noi non scompaiono quando invecchiamo ma rimangono con noi come parte integrante dell’inconscio. Rappresentano le qualità e i modi di essere dell’infanzia. Possiamo considerarla come la nostra “sub-personalità” — una delle molteplici dimensioni dell’essere umano.
Il bambino interiore si attiva spesso quando ci si trova di fronte a sfide che rievocano un ricordo traumatico dell’infanzia. Fino a quando non elaboreremo e integreremo consapevolmente quei ricordi, sarà il nostro sé bambino a prendere delle decisioni.
Questo ci dice che il lavoro sul bambino interiore (ovvero il “reparenting”, la rieducazione di sé stessi) ha due aspetti principali.
Il primo riguarda il recupero di tutte le qualità positive del bambino interiore: la spontaneità, la gioia pura e disinteressata, il giocare spensieratamente, il ridere senza nessun apparente motivo. In poche parole, l’esserci, l’essere presenti nel momento con addosso lo stupore dei bambini, che poi, a pensarci bene, suona familiare con il passo evangelico “In verità vi dico: se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.”
Il secondo – spesso il lato più impegnativo della rieducazione del sé – è il fare i conti con i ricordi repressi del proprio bambino interiore. È un po’ simile a quello che alcuni chiamano “lavoro sull’ombra”. In breve, si tratta di elaborare consapevolmente sentimenti ed esperienze dolorose represse molto tempo fa.
Nella sua teoria dello sviluppo psicologico, Richard Barrett (autore e ricercatore spirituale britannico) spiega che, quando entriamo in quella che può essere definita “l’esperienza umana”, tutti abbiamo bisogno prima di tutto di due cose: sicurezza fisica e senso di accettazione e appartenenza. Se i genitori o le figure di riferimento non riuscissero ad accontentare appieno queste due primarie necessità, questi bisogni insoddisfatti potrebbero perseguitarci lungo tutto il percorso di vita.
Da adulti, invece, possiamo soddisfare questi bisogni rieducando noi stessi. Si tratta essenzialmente di entrare nel ruolo del tipo di genitore di cui il nostro bambino interiore ha bisogno e provare ad accedere al bambino che eravamo una volta, per portare alla luce quelle esperienze e quelle emozioni che a quel bambino è stato insegnato a reprimere. L’idea generale del lavoro sul bambino interiore è che, se faremo uno sforzo per contattare, ascoltare e coltivare il nostro bambino interiore, allora potremo trovare e guarire le radici dei nostri traumi di adesso, da adulti quali siamo.
La parola “trauma” richiama spesso alla mente cose orribili. Ma non è necessario subire gravi abusi infantili per rimanere traumatizzati. La psiche di un bambino è così fragile e malleabile che può essere influenzata da quello che sembrerebbe, ad uno sguardo adulto, un “evento minore”. Nella visione del mondo del bambino tutto sembra diverso, enfatizzato, distopico. Poiché i bambini dipendono completamente da chi si prende cura di loro per soddisfare i loro bisogni, possono interpretare persino la minore delle negligenze come un’enorme minaccia.
Oltretutto, i bambini non riescono a riconoscere e rielaborare la loro prospettiva inevitabilmente limitata: credono a tutto ciò che vedono, credono a tutto ciò che l’adulto di riferimento dice loro (pensa a Babbo Natale, l’Uomo nero, la Fatina dei denti, le favole che prendono forma nei sogni). L’interpretazione diretta della loro vita diventa immediatamente una realtà fondante.
Quando da bambini attraversiamo questo tipo di esperienze fagocitanti, spesso ci viene insegnato a nascondere il nostro dolore. Molti genitori scoraggiano i propri figli dal piangere o dall’esprimere rabbia. Ci viene detto che siamo “bravi” solo quando siamo sorridenti, accondiscendenti ed educati.
È così che il trauma infantile diventa inconscio: si inizia nascondendolo agli altri, si finisce con il nasconderlo a sé stessi. In questo modo, ci si può solo illudere di averlo superato.
In realtà, il bambino ferito dentro di noi continua a gestire le nostre vite con una forte sofferenza addosso.
Ci spinge a comportamenti che sabotano felicità, serenità e successo senza il bisogno della nostra consapevolezza. E questo modus operandi è destinato a durare e a ripetersi nel tempo. A meno che non si decida di prendere in mano la situazione e lavorare con il bambino interiore.
Tutto questo parlare di traumi infantili, però, non significa incolpare i genitori o chiunque altro possa averci causato dolore. Molto probabilmente, queste persone stavano facendo del loro meglio con ciò che avevano e sapevano. Ma, a causa di determinate circostanze, stili di vita, problematiche di varia natura, potrebbero non essere riusciti a prestarci l’attenzione di cui avevamo bisogno in un determinato frangente o a non aver avuto il giusto tatto per il nostro grado di fragilità.
Tuttavia, tutti noi abbiamo la possibilità di crescere - e pertanto uscire – da quel trauma che porta continuamente sofferenza. Prendersi cura di sé stessi, riparare sé stessi, ripartire da sé sono modi molto potenti per farlo.
Fare reparenting significa dare al proprio bambino interiore ciò di cui ha bisogno a livello emotivo, significa relazionarsi con il bambino interiore esattamente come un buon genitore si relaziona con un bambino in carne e ossa, fornendo disciplina, limiti, confini e struttura. Questi sono — insieme al sostegno, alla cura e all’accettazione — elementi indispensabili per amare e vivere con qualsiasi bambino, sia metaforico che reale.
Alcuni di noi cercano ancora di trovare qualcuno “là fuori” che conforti il loro bambino interiore. È facile credere che una volta trovato un partner perfetto o una comunità spirituale, tutto andrà finalmente per il meglio e noi avremo il nostro meritato “e vissero felici e contenti”. Ma, solitamente, questa non è altro che una soluzione temporanea. Le altre persone confortano il nostro bambino interiore solo finché agiscono secondo le nostre aspettative. Nel momento in cui fanno qualcosa che non è nei nostri programmi, le vecchie ferite vengono nuovamente portate in superficie. E si riparte dal via, si torna alla sofferenza.
Ecco perché il lavoro sul bambino interiore è così potente. Permette di diventare genitori di sé stessi lavorando consapevolmente con il trauma che si è vissuto da bambini. Si impara così a concedersi tutta l’attenzione amorevole di cui c’è bisogno per guarire. E non si può dipendere da nessuno per questo processo di sanazione.
Sebbene le tecniche di reparenting siano vagliate da moltissimi psicoterapeuti e professionisti del settore, e si presentino in molteplici forme e dimensioni, ci sono tre ingredienti fondamentali che mettono d’accordo ogni scuola di pensiero e si possono sintetizzare nel seguente modo: connettere, nutrire e comunicare.
Connettersi con il proprio vissuto.
Nutrire il bambino e soddisfare i suoi bisogni emotivi.
Comunicare nell’accezione di verbalizzare e ascoltare ciò che il nostro bambino interiore ha da dire e magari chiedergli scusa, come nella Lettera al bambino che fummo che ho scritto e pubblicato nel mio libro “La cattiva abitudine di essere infelici”. Eccone uno stralcio:
“Scusa se ti ho abbandonato. Se ho smesso di rimboccarti le coperte e ti ho lasciato solo di fronte al buio, se non ti ho fatto sentire protetto, sostenuto e benedetto. Se ti ho sgridato ogni volta che sbagliavi, se ti ho preso in giro per le tue paure e le tue insicurezze, se ho preteso che fossi diverso, se ti ho costretto a crescere prima del tempo.”
La strada per la guarigione delle ferite emotive del nostro sé non è priva di ostacoli, vicoli ciechi e cadute. È un sentiero impervio, pochi coraggiosi riescono a percorrerlo tutto. Il nostro bambino interiore – che, in ultima analisi, è un modo come un altro per indicare quella parte di noi pura, innocente, autentica – chiede a gran voce di essere visto, accudito, ascoltato, accettato. Di non essere ignorato.
Facendo pace con i nostri bisogni più intimi, dando voce alle nostre paure e curando le ferite dell’infanzia, non saremo solo adulti più completi ed equilibrati, ma anche dei genitori migliori per le nuove generazioni che sempre di più avranno bisogno di essere guidate e supportate da adulti completi e risolti.
Non ignoriamo l’autenticità del nostro sé, la parte bambina della nostra anima.
Ha molte lezioni da insegnare.
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Argomento complesso e profondo, riguarda il tempo delle esperienze che può essere lungo o corto, necessita pazienza, attenzione, tempo, curiosità, accettazione. È come sbucciare una cipolla, giorno dopo giorno, lacrima dopo lacrima, più si va a fondo e più il problema è delicato. Ci sono lacrime dettate dal dolore, altre per errori mai rimediati, tuttavia quando arrivi al nocciolo dei noccioli ti rendi conto che il cuore è delicato, bianco, luminoso e non c’è errore o scelta da fare. Scopriamo che ogni buccia tolta è una scelta e un’esperienza che non si è persa, è lì sul tavolo sotto i nostri occhi ma non fa più male. Arrivare al centro, al bambino, significa abbracciare se stessi e scoprire che l’età non ha nessun significato e peso, è solo un paletto per la mente per accettare il mistero, il mistero della vita. Non c’è nulla di più meraviglioso di vedere un adulto mano nella mano con il proprio bambino, perché esprime amore, protezione, condivisione, accoglienza. Nel tempo scopriremo che quel bambino è la nostra anima e noi…
Bella la metafora della cipolla, molto pertinente e spiega bene come l’esterno non è il centro, trattasi di strati che si sono generati attraverso l’esperienza, le sovrastrutture mentali acquisite, le identificazioni che portiamo avanti ma che di certo non sono il bambino interiore, il centro di tutto e da cui tutto si ramifica.
Grazie del tuo prezioso commento Paolo, a presto!
Ciao Ivan, sto sperimentando con grande soddisfazione gli occhi attenti e quasi incantati dei bimbi quando ci si rivolge loro considerandoli come piccoli adulti in grado di comprendere perfettamente qualsiasi cosa si spiega o racconta loro con parole semplici e come talvolta se si parla ad un adulto come se si interagisse con un bambino (cioè avendo presente che a sua volta ha avuto sei anni) la comunicazione tra “grandi” mi pare più efficace. Un abbraccio.
Ciao Chiara, il tuo sperimentare va incontro a una grande verità: la nostra comunicazione è sterile perché troppo sofisticata. C’è bisogno di semplicità, meno paroloni, meno velocità, a favore di parole lente e dense, per una comunicazione da cuore a cuore.
Ti mando un abbraccio e… alla prossima lettura!
Tutto ciò è risonante nella maggior parte delle persone, ultimamente seguo un canale che tratta proprio di questo: “JulienHimself”.
Quello che noto di diverso dai soliti oratori fuffa guru motivazionali è che lui non fornisce dei mantra o frasi fatte di auto-convincimento del tipo “Fake it till you make it”, ma parla molto del bambino autentico che noi abbiamo dentro di noi, di quanto lo vessiamo, e di quanto ci auto-sabotiamo di conseguenza.
È un continuo soffocare la nostra parte più autentica.
Buona serata
Grazie Nikoas per la tua dritta e concordo con te, soffocare la propria parte più autentica, il voltare la testa dall’altra parte, non fa certo di noi delle persone migliori. E non ci rende nemmeno felici.
Buona vita.
JulienHimself fa finta di aver trovato un nuovo metodo di self help perché a detta sua i metodi classici non funzionano. In realtà è un’accozzaglia confusa di cose già dette e ridette dai fantaguru e dai buddisti e molte cose sono anche molto opinabili dal punto di vista della psicologia, come quando dice di guardarsi dal fuori e ridere di se stessi? Ma che modo di trattarsi è mai ridere di se stessi quando si è in ansia? Magari bisogna trovare il modo di darci quell’amore che nessuno ci ha mai dato o che non abbiamo mai percepito. Lascia perdere… è un bizzarro che porta solo fuori strada.
Ciao Ivan, bellissimo il tuo articolo, molto delicato come argomento, tutti noi abbiamo un bambino interiore, una parte che ha capacità di percepire molte sensazioni, ed è anche la parte che custodisce molti dei nostri ricordi, segreti e desideri.
Tuttavia, con il trascorrere degli anni, si tende a perdere la connessione con il bambino interiore, elemento che può portare a disturbi di vario tipo, da quelli legati all’autostima alle difficoltà relazionali.
Parlarne ha dimostrato che la cura del proprio bambino interiore infatti guarisce le ferite emotive vissute durante l’infanzia,
proprio per questo sarebbe necessario riprendere il contatto con esso, e capire anche che cos’hanno indicato i vari passaggi della nostra vita. Liberare il proprio bambino interiore significa amarsi di più e, di conseguenza, riuscire con maggiore controllo gestire le proprie emozioni e sentimenti. In questo modo possiamo vivere evitando che ogni cosa negativa che accade sia un torto verso la nostra persona. Purtroppo alle persone, al giorno d’oggi fanno finta che non esista il loro bambino interiore, perché buona parte della popolazione piace esistere soltanto, e non vivere. buona vita a tutti.
Ciao Fabrizio, grazie per aver letto e apprezzato. Concordo con te, la società moderna si sente perennemente “connessa”, ma in verità è una connessione sterile, che non genera conoscenza e ricchezza, tutt’altro, impoverisce sempre di più e isola gli umani gli uni dagli altri e ciascuno da se stesso. Un bel guaio. Forse è arrivato il momento di abbandonare le connessioni senza fili e iniziare a riallacciare il legame con il nostro passato, per capire da dove stiamo venendo, chi siamo stati, cos’è che ci portiamo dietro e cosa invece abbiamo dimenticato per strada. Compreso il nostro bambino interiore.
Emozionante scritto come sempre Ivan , grazie mille . Spesso mi domando da dove vengo e lentamente sto avendo alcune risposte . Il mio piccolo trauma infantile fu il sentirmi diverso , come oggi , ma l’ho trasformato in forza . Credo di essere rinato liberando inconsapevolmente il mio bambino interiore , riscoprendo così un entusiasmo puro , la bellezza delle piccole cose , che vivere è il vero evento , la felicità è in noi , da sempre . Sento aumentata la mia sensibilità soprattutto verso i bambini , gli animali , gli alberi , li sento parte di me . Un abbraccio
Che bello questo tuo messaggio, grazie Gianluca, la tua delicatezza e profondità d’animo diventano delle stelle capaci di illuminare il cammino altrui, perché è attraverso l’esempio che ci è vicino può venir fuori dalle situazioni di difficoltà interiore. Un abbraccio!
Sì , che sia di persona o per iscritto penso che ci illuminiamo a vicenda perché ci unisce qualcosa di estrema importanza amico mio .
Grazie Gianluca, a presto!
Non ho rimosso niente. Il bambino interiore è cresciuto. È un adulto che non vuole più piangere sul latte versato.
Ottimo lavoro. Grazie Marisa per essere passata da qui.