Un tempo, la fotografia era un vero e proprio rito. Si preparava con cura la macchina fotografica, si osservava la scena con certosina attenzione, si metteva a fuoco l’obiettivo e ogni scatto diventava un evento, un istante da cristallizzare per l’eternità. Seguiva poi lo sviluppo della pellicola, un processo lento e delicato che richiedeva tempo, maestria e una buona dose di fortuna. Quelle foto, oggi sbiadite ai margini degli album ingialliti, erano delle piccole capsule del tempo, dei frammenti di un’esistenza che scorreva lenta, ma intensa. Vecchie foto, non c’erano filtri, né pose omologate. I sorrisi erano genuini, le rughe raccontavano storie infinite, gli sguardi si perdevano in un’emozione autentica. Erano ritratti di un’umanità semplice, vera, ben lontana dall’ossessione contemporanea per l’apparenza.
Oggi si scatta a raffica, si filtra, si ritocca, si posta senza sosta. La fotografia – o meglio l’ossessione per il selfie – è diventata un fenomeno di massa, un vero e proprio incantesimo che cattura l’animo umano. C’è un’esposizione eccessiva, pose innaturali e una ricerca spasmodica della perfezione. Le regole dei social media impongono modelli stereotipati, ai quali ci si adegua volentieri pur di sentirsi parte di un gruppo. L’uso smodato dei filtri, volto a nascondere ogni imperfezione, è diventato la norma. Tutto deve essere rapido, immediato. Siamo, dopotutto, la società dei fast food, della moda fast fashion e dei fast selfie, intrappolati in un circolo vizioso di omologazione e apparenza.
Ecco perché una vecchia foto conta più di mille selfie. Portatela al naso e sentirete il suo odore di autenticità. Osservatela in ogni dettaglio e troverete interi romanzi. Le nostre facce, un tempo uniche e irripetibili come opere d’arte, sembrano ora uscite da un unico stampo, cloni di una bellezza standardizzata. La fotografia, da intimo mezzo di comunicazione, è diventata un palcoscenico vanitoso, dove ognuno recita una parte, cercando di impressionare un pubblico sempre più esigente. Eppure, dietro la perfezione artificiale dei selfie, si nasconde una profonda nostalgia per le vecchie foto, così imperfette eppure così autentiche. Forse perché in esse ritroviamo un frammento della nostra storia, un legame indissolubile con le nostre radici, un’umanità che oggi sembra sfuggire.
«Una bella fotografia racconta una storia, rivela un luogo, un evento, uno stato d’animo, è più potente di pagine e pagine scritte.»
(Isabel Allende, “Ritratto in seppia”)
Ho tra le mani una foto ingiallita di famiglia, scattata da mio padre. Mia nonna, indaffarata ai fornelli, indossa un fazzoletto in testa che le incornicia il volto concentrato. Un gatto nero, accovacciato ai suoi piedi, osserva con attenzione ogni suo movimento, in attesa di qualche briciola. Sullo sfondo, l’orologio appeso al camino segna le dodici in punto, quasi potessi udirne il ticchettio ritmico. È un’istantanea che cattura il respiro del tempo, un’immagine che sembra uscita da un romanzo di campagna. Vecchie foto come ritratti color seppia con occhi che parlavano, pose naturali, un’atmosfera che ti avvolgeva come una coperta calda. C’era un’anima in quelle foto, un’emozione tangibile che superava di gran lunga la semplice rappresentazione di un momento.
Non intendo crocifiggere la fotografia moderna. Anzi, ammetto che la tecnologia ci ha regalato strumenti miracolosi per catturare la bellezza del mondo. Ma forse, tra un selfie e l’altro, dovremmo concederci un attimo di pausa per riflettere. Dovremmo riscoprire il valore della spontaneità, dell’autenticità, di quell’emozione che fa di una semplice fotografia un’opera d’arte.
Oggi, hard disk e smartphone straripano di immagini: selfie omologati, scatti costruiti ad arte, un disperato bisogno di mostrare a tutti, a ogni costo, un mondo che spesso non esiste. Il tempo, con la sua progressione, e un malinteso senso del progresso, hanno progressivamente cancellato e ridicolizzato il mondo dei sentimenti, trasformando l’apparenza in sostanza. Siamo passati dall’essere soggetti a diventare oggetti da esposizione, marionette che danzano al ritmo dei social media.
Ma ditemi: qual è l’emozione che può suscitare, fra trent’anni, un selfie davanti allo specchio di un bagno pubblico, o uno scatto di spalle con le chiappe al vento? Forse un senso di vuoto, una vaga sensazione di aver perso qualcosa di prezioso lungo la strada. Una vera fotografia, quella che ti tocca il cuore, è quella che ti riporta indietro nel tempo, che ti fa rivivere emozioni, che ti racconta una storia. È un’istantanea dell’anima, non solo del corpo.
La ricerca ossessiva della perfezione, tipica del nostro tempo, ha contaminato anche il mondo della fotografia. Non ci accontentiamo più di ciò che siamo, ma siamo costantemente alla ricerca di un miglioramento, di un ritocco, di una trasformazione che ci renda diversi da ciò che siamo. È come se volessimo nascondere la nostra umanità, con le sue fragilità e imperfezioni, dietro una maschera di bellezza artificiale.
Testimoniamo questa tendenza in comportamenti sempre più diffusi: persone che si recano in luoghi specifici solo per creare un’immagine di sé che non corrisponde alla realtà, o che si prodigano in sessioni di shopping che si consumano solo nel camerino, indossando abiti che non acquisteranno mai, solo per condividere scatti studiati sui social media. Tutto questo non è altro che un’illusione, un tentativo disperato di vivere vite che non sono le nostre, di essere persone che non siamo. È un mondo finto, costruito su fondamenta di sabbia, un mondo triste e privo di autenticità.
La società contemporanea sembra ossessionata dalla spettacolarizzazione, e questa ricerca sfrenata ha portato a un preoccupante aumento delle “morti per selfie”. Sempre più giovani perdono la vita in circostanze tragiche, mentre cercano lo scatto perfetto, il video virale. Cadute da altezze vertiginose, incidenti in luoghi pericolosi: tutto questo per cosa? Per un like, per un commento, per un momento di gloria effimera sui social media.
Alla base di questa pericolosa tendenza c’è un altro fenomeno inquietante: la banalizzazione della morte e del dolore attraverso i selfie. Scattare foto in luoghi di tragedia o in contesti macabri è un gesto non solo irrispettoso verso le vittime e i loro cari, ma anche moralmente inaccettabile. È come se la vita reale fosse diventata un palcoscenico, e la morte un semplice elemento di scena, da immortalare e condividere online.
Il virtuale sembra aver preso il sopravvento sul reale, così come il digitale ha sostituito l’analogico, e la ricerca della fama sui social media spinge sempre più persone a compiere gesti estremi e pericolosi. È un circolo vizioso, in cui l’approvazione degli altri diventa l’unica misura del proprio valore. Un fenomeno tragicomico, ma purtroppo sempre più diffuso.
Ora capite perché una vecchia foto conta più di mille selfie?
Dietro un’immagine analogica c’è un’intenzione, un attimo colto nella sua imperfezione, un frammento di vita che non si può replicare. Essa è un’istantanea autentica, un’impronta indelebile del passato che ci lega alle nostre radici, alle persone che amiamo, ai luoghi che ci hanno forgiato.
Il culto virtuale, invece, con la sua ossessione per l’immagine perfetta, rischia di offuscare questa verità. Ci si nasconde dietro filtri e pose studiate, ci si costruisce identità fittizie per cercare l’approvazione altrui. Ma questa ricerca ossessiva di un’immagine di noi stessi che sia sempre impeccabile ci allontana dalla nostra essenza più profonda. Il rischio maggiore è quello di “vivere per gli altri”, di conformarci a modelli imposti, di non essere in grado di cogliere ciò che rende ciascuno singolare, unico. Perché nessuno ci ha mai aiutato ad andare oltre la pellicola che riveste la sostanza, a scavare nelle profondità del nostro animo e a trovare la forza di essere noi stessi, con le nostre fragilità e le nostre imperfezioni.
«Eccola qui l’eroina del nuovo millennio, ecco la grande finzione che viaggia nell’etere e si spande come una pestilenza dentro le nostre case. Ecco la possibilità h24 di essere chi vogliamo quando vogliamo, di esporci senza metterci in gioco, di liberarci di tutto il veleno accumulato senza subirne le conseguenze, di inseguire l’amore senza scendere a compromessi, di riscattarci dai nostri fallimenti senza doverci rimboccare le maniche.
Un mondo di pavidi, egocentrici robottini che si danno appuntamento online e che, delusi dalla propria vita, ne costruiscono una nuova di zecca, dove tutto è a portata di mano tranne quello che è vero, dove gli estranei si chiamano amici e la vicinanza virtuale scava voragini sempre più profonde e inconsolabili.
Sempre più connessi, sempre più distanti.»
(Dal mio libro “La cattiva abitudine di essere infelici”)
4 commenti
Tutto perfettamente esatto, una vecchia foto ha una storia dentro. Moltissimi anni fa avevo scansionato una vecchissima foto di mia nonna con il suo abito da festa. Foto particolare, perché lei era del Cairo e il vestito era tipico di quelle parti, però era decisamente rovinata. Ci volle un bel po’ ma con pazienza e “gimp” ho ricostruito pixel a pixel le parti rovinate e l’ho portata ad essere quasi nuova. Bella la tecnologia in questo caso, però può diventare spaventosa quando, successivamente, inserita in IA e con un testo la vedi parlare. Ti scorre dietro la schiena un brivido e non è per il fatto che sia realistica quanto perché è falsa. Per un momento ti passa nella mente l’idea che si può far dire qualsiasi cosa a chiunque, basta la tecnologia. Però quando riprendi in mano la vecchia lacera foto ti rendi conto che quel pezzo di carta speciale non è solo una foto ma è una storia di vita vissuta. Forse, come un tempo si diceva per scherzo, la foto ruba una parte di te, quando è fatta bene e quando è analogica. Tuttavia, cosa fa quella digitale? Cosa ruba?
Che storia Paolo, c’è da dire che quella foto rimane comunque la sorgente, senza di essa, nulla sarebbe stato possibile, nemmeno rivivere i ricordi e scatenare dentro di te un vortice di emozioni. A mio avviso, ecco, le vecchie foto hanno con sé un magnetismo e un concentrato energetico che si disperde in quelle digitali.
Faccio un esempio pratico: ho energia 100, decido di convogliarla tutta in un solo scatto. Ebbene, quella foto avrà energia 100.
Ho di nuovo energia 100, ma decido di convogliarla in 100 scatti differenti. Ciascuna di quelle foto avrà energia 1.
Ecco perché prima scattare una fotografia era una specie di rituale, perché ci imprimevi sopra un qualcosa che sarebbe durato a lungo, tutto in un solo scatto.
Un abbraccio!
Verissimo Ivan, avviene la stessa cosa con le parole, i pensieri, le percezioni. L’attenzione che mettiamo in ogni cosa è la vera scintilla che da valore alle cose. Ecco perché la IA non potrà mai essere pari all’uomo, la macchina elabora, l’essere umano crea e lo fa quando è in contatto profondo con la Realtà.
Sono pienamente d’accordo con te Paolo, bravo!