Dobbiamo Un Gallo Ad Asclepio (Le Ultime Parole Di Socrate)

Tragicomico
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Socrate

«O Critone, disse, dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo e non ve ne dimenticate.»

Le ultime parole di Socrate in punto di morte echeggiano ancora oggi nei corridoi della storia della filosofia, cariche di un significato profondo e sfaccettato.
Ma cosa volevano dire? E perché l’uomo che è considerato uno dei padri fondatori della filosofia occidentale fu condannato a morte?
Socrate, un filosofo ateniese del V secolo a.C., era un personaggio controverso e carismatico. Non scrisse mai nulla, ma la sua filosofia si diffuse attraverso i dialoghi di Platone, suo più celebre allievo. Socrate si dedicava a interrogare i suoi concittadini sulle loro convinzioni, cercando di smascherare le false certezze e stimolando un pensiero critico.
Proprio questo suo modo di fare lo mise nei guai. Fu accusato di non credere negli dei della città, di introdurre nuove divinità e di corrompere i giovani. Queste accuse, in un’Atene profondamente religiosa e tradizionalista, erano gravissime.
Condannato a morte per aver sovvertito i valori della città, Socrate accettò la sentenza e le sue ultime parole, rivolte ai suoi discepoli, sono state interpretate in molti modi.
Ma riavvolgiamo il nastro e ripercorriamo insieme, attraverso le parole che Platone racconta a Echecrate, le ultime ore di vita del maestro Socrate, scritte nel “Fedone”:

E Critone, allora, fece cenno a un suo servo che se ne stava in disparte. Questi uscì e dopo un po’ tornò con l’uomo che, in una ciotola, portava già tritato il veleno che doveva somministrargli.
«Tu, brav’uomo, che sei pratico di queste cose,» disse Socrate vedendolo, «cos’è, allora, che bisogna fare?»
«Nient’altro che bere e poi passeggiare un po’ per la stanza finché non ti senti le gambe pesanti; poi ti metti disteso e così farà il suo effetto.»
Così dicendo porse la ciotola a Socrate. La prese, Echecrate, con tutta la sua serenità, senza alcun tremito, senza minimamente alterare colore o espressione del volto, ma guardando quell’uomo, di sotto in su, con quei suoi occhi grandi di toro.
«Che ne dici di questa bevanda, se ne può fare o no libagione a qualcuno? È permesso?»
«Socrate, noi ne tritiamo giusta la quantità che serve.»
«Capisco, ma pregare gli dei che il trapasso da qui all’ aldilà, avvenga felicemente, questo mi pare sia lecito; questo io voglio fare e così sia.»
Così dicendo, tutto d’un fiato, vuotò tranquillamente la ciotola. Molti di noi che fino allora, alla meglio, erano riusciti a trattenere le lacrime, quando lo videro bere, quando videro che egli aveva bevuto, non ce la fecero più; anche a me le lacrime, malgrado mi sforzassi, sgorgarono copiose e nascosi il volto nel mantello e piansi me stesso, oh, piansi non per lui ma per me, per la mia sventura, di tanto amico sarei rimasto privo. Critone, poi, ancora prima di me, non riusciva a dominarsi e s’era alzato per uscire.
Apollodoro, poi, che fin dal principio non aveva fatto che piangere, scoppiò in tali singhiozzi e in tali lamenti che tutti noi presenti ci sentimmo spezzare il cuore, tranne uno solo, Socrate, anzi: «Ma che state facendo?» esclamò. «Siete straordinari. E io che ho mandato via le donne perché non mi facessero scene simili; a quanto ho sentito dire, bisognerebbe morire tra parole di buon augurio. State calmi, via, e siate forti.»
E noi, provammo un senso di vergogna a sentirlo parlare così e trattenemmo il pianto. Egli, allora, andò un po’ su e giù per la stanza, poi disse che si sentiva le gambe farsi pesanti e così si stese supino come gli aveva detto l’uomo del veleno il quale, intanto, toccandolo di quando in quando, gli esaminava le gambe e i piedi e a un tratto, premette forte un piede chiedendogli se gli facesse male. Rispose di no. Dopo un po’ gli toccò le gambe, giù in basso e poi, risalendo man mano, sempre più in su, facendoci vedere come si raffreddasse e si andasse irrigidendo. Poi, continuando a toccarlo: «Quando gli giungerà al cuore,» disse, «allora, sarà finita.»
Egli era già freddo, fino all’addome, quando si scoprì (s’era, infatti, coperto) queste furono le sue ultime parole: «Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio, dateglielo, non ve ne dimenticate.»
«Certo,» assicurò Critone, «ma vedi se hai qualche altra cosa da dire.»
Ma lui non rispose. Dopo un po’ ebbe un sussulto. L’uomo lo scoprì: aveva gli occhi fissi. Vedendolo, Critone gli chiuse le labbra e gli occhi.
Questa, Echecrate, la fine del nostro amico, un uomo che fu il migliore, possiamo ben dirlo, fra quanti, del suo tempo, abbiamo conosciuto e, senza paragone, il più saggio e il più giusto.

Dunque, immaginate la scena: Socrate, ormai ai confini della vita, si appresta a varcare la soglia dell’eternità. Consapevole dell’imminente dipartita e del distacco dai suoi affetti più cari, eppure tra tutti i presenti, è l’unico a irradiare una calma imperturbabile. Nonostante la cicuta stia già agendo sul suo corpo, invita gli altri a mantenere la serenità. Ma quale forza interiore lo sostiene in quest’ultimo, supremo atto di saggezza? Tanto da affermare, con piena lucidità e serenità:
«Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio, dateglielo, non ve ne dimenticate.»
Parole che rappresentano, a mio avviso, un autentico testamento spirituale del filosofo ateniese.

Asclepio, nella mitologia greca, era il dio della medicina e della guarigione. I suoi santuari erano luoghi di cura e di pellegrinaggio, dove si andava in cerca di guarigione da ogni male. Offrire un gallo ad Asclepio (figlio di Apollo) era un rito propiziatorio, un ringraziamento per la salute ritrovata o un augurio per una guarigione futura.
Egli sta simbolicamente ringraziando il dio per averlo “guarito” dalle limitazioni del corpo e per avergli permesso di raggiungere uno stato di coscienza autentica. Il gallo, con il suo canto all’alba, era spesso associato alla rinascita e alla nuova vita. Offrendo un gallo, quindi, Socrate esprime la sua fiducia in un trapasso che va oltre la morte fisica.
Una situazione analoga l’avevo già affrontata in questo mio blog nell’articolo “Osho Racconta Ouspensky: Voglio Morire In Piedi”. Un racconto che sottolinea come l’essere presenti a se stessi non sia mai una follia, neanche dinanzi alla morte. Al contrario, la vera follia risiede nelle coscienze assopite, che trascorrono l’intera esistenza in uno stato di inoperosità, inattività e spento torpore, private di qualsiasi scintilla di vita interiore. Coscienze che, ancora una volta, si sono lasciate ingannare.

Ecco perché Socrate pronuncia quelle parole: dietro di esse, oltre alla famosa ironia socratica che aveva costellato tutta la sua vita, si colloca l’insegnamento forse più grande che un maestro possa lasciare ai suoi discepoli: la capacità di vivere il qui e ora, di cogliere l’istante presente, l’Adesso. Socrate non è ancora morto, e fino a quel momento i suoi pensieri sono al presente. Quando arriverà la morte si occuperà anche di quella, ma fino a un istante prima si vuole occupare di altre incombenze.

Che poi, è esattamente ciò di cui hanno parlato, seppur con parole diverse e in contesti differenti, i grandi filosofi, mistici e maestri spirituali che hanno calcato questo pianeta. Ecco, dunque, il grande segreto che ha attraversato la storia della spiritualità sulla Terra. Ogni insegnamento volto al benessere dell’individuo, in ultima analisi, può essere riassunto in una semplice verità: quella di concentrarsi sul momento presente. È il modo più efficace per alleviare la sofferenza.
La bellezza di vivere istante per istante, senza le preoccupazioni di una mente che ci sballotta tra i ricordi del passato e le ansie del futuro. È questa la ricompensa per chi ha intrapreso con coraggio il cammino della consapevolezza e della presenza, addentrandosi in un’esistenza senza tempo, e senza una fine.
E quando sarà il momento, ricordate: dobbiamo un gallo ad Asclepio!

Tragicomico

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16 commenti

Jacopo Rossetto 13 Settembre 2024 - 23:20

Grazie per questa perla preziosa.

Rispondi
Tragicomico 14 Settembre 2024 - 12:08

Grazie Jacopo, mi fa piacere che hai apprezzato questo mio nuovo articolo e che hai deciso di lasciare due parole di ringraziamento. Lo apprezzo molto.

Rispondi
davide 14 Settembre 2024 - 3:48

molto bello

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Tragicomico 14 Settembre 2024 - 12:09

Grazie Davide, è sempre un piacere averti qui come lettore.

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Mari 14 Settembre 2024 - 18:28

Questo articolo andrebbe riletto tutte le volte che,nel quotidiano, ci troviamo in affanno… Sia per le grandi che le piccole cose. Mi ha fatto sorridere l’ironia che il filosofo ha utilizzato a proposito delle donne… Se potessi lo abbraccerei!!! grazie ivan, mi hai commosso.

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Tragicomico 14 Settembre 2024 - 22:49

Grazie Mari, la saggezza di Socrate per come ci è stata trasmessa risulta spessa abbellita da un’ironia figurativa e ben dosata, in ogni caso rimane uno degli uomini di maggior spessore che ha calcato la nostra crosta terrestre. I suoi insegnamenti sono davvero senza tempo. Un abbraccio

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Federico 16 Settembre 2024 - 14:42

Era una lettura di cui sentivo il bisogno oggi.
Grazie Ivan

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Tragicomico 16 Settembre 2024 - 16:16

Benvenuto Federico, spero tu abbia tratto beneficio da questa riflessione. Alla prossima!

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Pietro 14 Settembre 2024 - 19:18

Questo è davvero il più grande insegnamento! Grazie!

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Tragicomico 14 Settembre 2024 - 22:50

Grazie Pietro, un insegnamento di cui fare tesoro. A presto

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Paola 15 Settembre 2024 - 15:18

Grazie infinite.

Rispondi
Tragicomico 15 Settembre 2024 - 17:19

Grazie Paola, per me è sempre un piacere scrivere.

Rispondi
Chiara 15 Settembre 2024 - 14:10

Grazie Ivan, il tempo e l’attenzione dedicati a leggere e a riflettere su quello che scrivi, sono un investimento davvero di valore.

Rispondi
Tragicomico 15 Settembre 2024 - 17:20

Grazie a te Chiara, per questo commento che per me diventa pura linfa. Grazie di cuore!

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paolo 16 Settembre 2024 - 8:34

Ciao Ivan, è vero che abbiamo molto da imparare dagli antichi filosofi e comprendere che i pensieri che solitamente abbiamo siano in realtà la cacca del cervello sarebbe già un ulteriore passo. Perché pensare non è essere, i pensieri sono i rimasugli di ciò che deriva dal presente e dalla coscienza d’essere. Eppure, amiamo, come spesso avviene per i bambini, mettere le mani nel fango, nella cacca, nei resti di un passato che ormai non c’è più e pretendiamo anche di costruirci qualcosa. Intendiamoci, non è un errore perché anche quella è un’esperienza, appunto, da bambini. Per questo motivo, dovremmo domandarci se siamo un’anima bambina o adulta. Chi siamo realmente? Il passato così come il futuro non sono reali rispetto al presente e continuare a rovistare tra memoria, ragionamenti, collegamenti e razionalità non ci porterà mai ad essere ciò che siamo. Diventare consapevoli di questo meccanismo è un processo simile a quello di buttarsi nel burrone, nel mistero, nell’ascolto verso il nostro interiore. Significa agire secondo principi non ragionati e limitati ma legati comunque alla logica, al cuore, allo spirito. Elementi che vivono il presente. È una visione totalmente diversa che porta a comprendere che la mente è solo uno strumento alla quale si è data troppa importanza e troppa libertà. Quando entriamo in unione con mente, cuore e anima il corpo è uno e non si parla più di consapevolezza ma di coscienza. Le percezioni iniziano ad essere espanse e senza limiti, nulla però è cambiato nella nostra vita, siamo cambiati noi o meglio siamo ciò che siamo.
Entrando in contatto con le nostre parti più interne scopriremo che i meccanismi interiori sono lo specchio di ciò che vediamo fuori, bene e male sono alla radice dentro il nostro essere insieme al desiderio del potere, per questo motivo un nuovo lavoro ci impegnerà tra consapevolezza e percezione, in modo che la coscienza possa liberarsi dall’ultima catena e scoprire che la Creazione, non il paradiso o l’inferno, è qui e ora. La coscienza a quel punto è semplicemente l’anima che unita al suo spirito nasce e opera nella Creazione stessa. Materia, energia, vibrazione, informazione, interiore, spirito, legge sono le parti molteplici dell’esistenza e qualunque sia la propria forma ciò che resta importante è sempre e solo essere. Non siamo angeli, demoni, esseri spirituali ma molto di più. Purtroppo però, andare oltre, fa sempre paura, perché ci rende responsabili, nonostante lo siamo comunque di ogni nostra scelta o non scelta.

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Tragicomico 16 Settembre 2024 - 16:29

Caro Paolo, la tua affermazione “Pensare non è essere” mi ha riportato alla mente un’altra frase che lessi anni fa nel libro 1984 di George Orwell: “Non è tanto restare vivi, quanto restare umani a essere importante”. Ho voluto riportarla perché a mio avviso sintetizza bene la tua riflessione con quella che ho voluto postare io nell’articolo in merito alle ultime parole di Seneca.
L’illustre filosofo, infatti, dimostra quanto per lui sia molto più importante rimanere umano fino alla fine, anziché restare vivo. Una differenza non da poco! Essere vivi è uno stato biologico, un fatto naturale; essere umani, invece, è un’esperienza che trascende la mera sopravvivenza. È la capacità di provare emozioni, di amare, di creare, di pensare in modo critico e di mantenere la propria dignità, anche di fronte all’oppressione, o dinanzi a una condanna a morte, come nel caso di Socrate.
Quindi sì, concordo in pieno con la tua riflessione in merito all’espansione di coscienza.
Grazie del commento, ti mando un abbraccio fraterno.

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