Autofobia: La Paura Di Restare Soli Con Se Stessi

Tragicomico
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L’autofobia viene spesso definita come la paura della solitudine ma, a parere di chi scrive, si tratta di una paura molto più profonda e, soprattutto, diffusa. Ma partiamo dall’etimologia della parola autofobia. Il termine è composto dall’unione di due concetti: “auto”, che sta a significare “sé”, e “fobia”, ovvero “paura”. Nella sua forma letterale autofobia diventa la paura di sé, ma in ambito psicologico e introspettivo, con una visione più olistica della questione, abbiamo l’espressione del concetto che manifesta la paura di restare soli con se stessi.

Come dicevo è una paura piuttosto diffusa al giorno d’oggi, molti ne soffrono e nemmeno lo sanno. Non sanno quello che è il loro malessere e, pertanto, non riescono a dare una svolta alla propria vita, per valorizzare l’esistenza, incastrati come sono fra ansie e preoccupazioni. Vivere con delle paure addosso è come vivere ingabbiati e vedere la propria vita scivolare via da dietro le sbarre.

L’autofobia non è “la solitudine”. Per un motivo molto semplice, la paura anticipa l’evento in sé, in altre parole non bisogna essere presenti nell’evento per averne paura. Prendiamo un’altra paura molto diffusa. L’aerofobia, la paura di volare. Chi ne soffre non sperimenta questa paura mentre, ad esempio, si trova in volo su di un aereo. Ma la sperimenta già prima, in anticipo, al solo pensiero di dover prendere quell’aereo che molto probabilmente non prenderà mai.

Lo stesso vale per l’autofobia, si ha paura al solo pensiero di dover rimanere soli con se stessi e quindi si farà di tutto per evitare che questa condizione possa verificarsi. Come? Inventando nuovi modi per occupare il proprio tempo, nuove futilità e, soprattutto, tante distrazioni. Tendiamo ad imbottire la nostra agenda, ma non solo quella, anche la testa, di cose da fare, di impegni, scadenze, così come riempiamo il corpo di cibi da ingurgitare. Tutto questo pur di difenderci da noi stessi, dal contatto nudo e crudo con ciò rappresentiamo.

Nel mio libroSchiavi del Tempo” tratto la questione in pillole, in particolare, nel capitolo riguardante la distrazione, scrivo: “Il vero motivo per cui non riusciamo a uscire dalla morsa della distrazione è che non è quello che vogliamo. Non ci conviene, non è nel nostro interesse smettere di essere distratti, perché vorrebbe dire rinunciare alla scusa perfetta per non guardare in faccia il vero nemico. Il vero nemico sono i nostri vuoti, i nostri silenzi. La nostra mente e quel che può fare quando resta da sola.
È il divertissement che richiama l’ira di Pascal, il “divertimento” visto non nella sua forma giocosa e dunque positiva, ma nella sua accezione latina di spostamento dell’attenzione e allontanamento. Incapace di fronteggiare la propria miseria, l’uomo decide di proteggersi chiudendosi in una gabbia illusoria di distrazioni che non lascia spazio alla riflessione critica. La grande distrazione, la grande fuga da se stessi.

Si cerca di fuggire da se stessi, anche nei momenti di solitudine. Un esempio? Chi evita le proprie paure rimanendo permanentemente connesso con il proprio dispositivo digitale è una persona che prova a eludere la propria autofobia. Siamo iperconnessi sempre ed ovunque, alla continua ricerca di qualcosa, qualunque cosa, che ci riempia e ci tenga occupati. Ma evitiamo davvero le nostre paure rimanendo connessi? Essere collegati digitalmente ci unisce o è l’opposto? Forse, ci distanzia da noi stessi?

Il distanziamento – parola molto in voga oggi – è proprio quello che cerchiamo, per allontanarci da noi stessi, per essere meno “soli”, ecco perché abbiamo il bisogno estremo di like, cuoricini, notifiche, gruppi di chat, estenuanti messaggi vocali, videochiamate e chi più ne ha, più ne metta. La distrazione dettata dai dispositivi digitali diventa la nostra droga, l’eroina di questi tempi moderni.

C’è poi chi fugge da se stesso rintanandosi nel proprio lavoro. Ore in più, straordinari non pagati, accumulo di stress, colleghi antipatici, tutto va bene purché non si debba rimanere soli con se stessi e i propri vuoti. È così che il lavoro diventa il focus della propria vita, il verbo lavorare viene ripetuto come un mantra, entra a far parte di ogni discorso di vita e, paradossalmente, una vita senza lavorare viene vista come una vita troppo pericolosa per l’uomo moderno.

Persone che necessitano di circondarsi da un esercito di facce, conoscenti, colleghi, profili, immagini, culi, e l’amicizia, quella vera e pura si è estinta per lasciare spazio a discorsi futili e inutili con persone mai scandagliate, mai approfondite, quasi sempre estranee, che hanno il solo scopo di squarciare il silenzio interiore, l’uomo nero del nuovo millennio.

Quindi l’autofobia, signori miei, più che una paura della solitudine diventa una paura di noi stessi. Abbiamo paura di noi, di ciò che siamo, o di ciò che non siamo diventati. E le radici di questa fobia risalgono spesso al periodo dell’infanzia. Chi ha vissuto durante l’infanzia esperienze di abbandono, o di emarginazione, di rifiuto, ma anche un trasloco – il dover sradicare le proprie radici, la propria identità – può riscontrare problemi di autofobia.

E chi ne soffre lentamente sviluppa dentro di sé altre paure e sensazioni, come la paura di non essere amato – o di non essere amato abbastanza – la sensazione di essere invisibile e la costante paura di essere rifiutato o non apprezzato. Ma, per uno scherzo di risonanza, chi ha paura di rimanere con se stesso attira nella propria vita delle circostanze di solitudine che gli faranno vedere i sorci verdi, perché la vita è così: prima insegna con le buone e poi con le cattive. Aveva ragione Bernardo Bertolucci nel dire che “la solitudine può essere una meravigliosa conquista o una tremenda condanna”.

Diventa evidente, quindi, capire come l’autofobia sia direttamente correlata con l’autostima. Un’autostima carente favorisce l’insorgere della paura di restare soli con se stessi. Perché nel nostro registro interiore, che chiamiamo inconscio, negli anni sì è stratificata quella falsa convinzione – indotta – che da soli non ci bastiamo, e ci hanno resi insicuri, vulnerabili, bisognosi degli altri, per essere come gli altri, per diventare massa, una massa globalizzata, connessa e uniforme, facilmente manovrabile.

Ecco, chi si trova in una situazione del genere è bene che faccia tesoro di una massima espressa dall’immenso Carmelo Bene: “Per apprendere bisogna prima disapprendere”! È arrivato il momento di mettere da parte tutte quelle convinzioni, convenzioni e sovrastrutture mentali che condizionano la propria vita. Imparare che la solitudine è solo un satellite di un pianeta molto più importante: noi stessi. Essere soli non significa solitudine, e solitudine non equivale a essere soli. Del resto, si è può essere soli anche in mezzo alla gente, sì può essere soli anche mentre si fa l’amore in coppia.

La paura dobbiamo sfruttarla a nostro vantaggio, sempre, pertanto quale occasione migliore per cercare di ritagliarci del tempo per riflettere, per stare soli con se stessi e guardare in faccia la realtà? Eliminare le sovrastrutture mentali e le convinzioni significa anche rivalutare, dare valore ad alcuni momenti e circostanze fino ad ora ignorate, evitate. Entrare in contatto con l’ansia, con la paura e le proprie preoccupazioni è certamente spiacevole, si tratta, però, di uno sforzo necessario, fondamentale, per accettare se stessi , sviluppando una dose notevole di resilienza, per riallinearci dopo esserci piegati dalla paura.

Perché chi non impara a stare tranquillo con se stesso, non potrà mai stare con qualcun altro per pura scelta deliberata, si tratterà sempre e comunque di una scelta indotta dalla paura di rimanere soli. Ecco perché molte coppie poi crollano sotto i colpi della quotidianità: perché si commette il madornale errore di scegliere la coppia e non la persona con cui stare insieme. Solo quando si supera la paura di restare soli si diventa più indipendenti e sicuri di sé, coltivando tutto ciò che offre appagamento, per iniziare a concepirsi come un individuo completo, senza “mancanze”, per iniziare a godere della propria presenza, e scoprire che alcuni semini della felicità si nascondono in quel silenzio mai apprezzato, dentro quell’indipendenza mai cercata e soprattutto, dentro quel contenitore mai scoperchiato.

Tragicomico

6 commenti

Rosaria Mazzetti 24 Luglio 2020 - 7:17

Grazie tragicomico, oserei dire che la solitudine se arrivi a scoprirne l’essenza trovi che è magica e riesci a creare quell’armonia che difficilmente trovi con l’altro ma ti fa donare all’altro ricchezze di rara bellezza perché arricchisce un’intimità di vero Amore che puoi dispensare a tuo piacimento. Come diceva Quasimodo “Ognuno sta solo sul cuore della terra ed è subito sera”

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Tragicomico 24 Luglio 2020 - 19:19

Grazie a te Rosaria, per essere passata a leggermi. Concordo, la solitudine deve e puo’ essere fonte di ricchezza, quel momento unico e speciale dove incontri te stesso, per conoscere ciò che sei e non ciò che gli altri vedono in te. Un momento di pausa nel caos quotidiano che chiamiamo vita 😉

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Massimiliano Stretti 7 Agosto 2020 - 22:15

Hai mai notato che alcune persone, arrivate ad un punto della vita, smettono di evolvere? Nel momento in cui arrivano a vedersi in una maniera che gli piace, o meno dolorosa o più accettabile per sé, taac. Situazione cristallizzata. Ed è un momento che può accadere anche molto presto. Per cui trovi la 25 enne che fa i video su tik tok ( che solo in teoria era per adolescenti), il 60 enne che corre, fa palestra discoteca con coetanee 60 anni che pensano di fare concorrenza alla 25 enne di tik tok. Il mantra è “la vita è adesso” “vivi ogni giorno come fosse l’ultimo” e il covid non esiste tanto colpisce solo i 70enni. Per i 70enni che corrono, il virus colpirà dai 75 e non si possono fermare perché devono “vivere come se questo giorno fosse l’ultimo”. Agli occhi di un osservatore sembrano tutti dei rimbambiti, fuori dalla loro età, dei bambinoni bamboccioni o ridicoli vecchietti che vanno in discoteca. Tutto questo per dire che la paura di guardarsi dentro, secondo me, è un grande fattore in tutto questo. O forse è la chiave di tutto e basta, inteso tutti i mali del mondo

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Tragicomico 8 Agosto 2020 - 22:50

Sia la paura di guardarsi dentro che il non fermarsi sono aspetti che tratto ampiamente nel mio libro “Schiavi del Tempo”, quindi condivido questa parte della tua analisi Massimiliano. C’è in atto una vera competizione fra generazioni, fra i vari ceti sociali, fra sessi, insomma, un tutti contro tutti che ci sta isolando sempre di più nella nostra misera vita fatta di solitudine e perenne stato di infelicità!

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FAbrizio Mauro 29 Dicembre 2022 - 21:35

La paura di restare soli è diventata il male del secolo. In un mondo sempre più connesso, aumenta sempre più il bisogno di essere cercati, voluti, scelti, amati dagli altri. In mancanza di basi solide e di autostima, l’ansia della solitudine si alimenta, facendo perdere di vista gli obiettivi e il meglio sé. Non possiamo dimenticarci del nostro bambino interiore, quello che ci spinge ad essere creativi, e a non smettere di essere giovani e curiosi . È grazie a lui che non smetteremo di credere nella vita. Dunque spegnere i nostri Device, non fa così male per vivere una realtà vera, e non immaginaria che serve solo a spaventarci. (ricordo che lo specchio della strega cattiva e di colore nero, come i nostri Device che ci portiamo in tasca tutti i giorni)

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Tragicomico 4 Gennaio 2023 - 17:22

Sì, la solitudine oggi fa paura più di ieri, perché se un tempo le persone erano capaci di rialzarsi da sole oggi quella forza non c’è più. Sì è sempre più connessi e sempre più soli, sempre più tecnologici ma sempre più fragili. Manca quella forza interiore, quel fuoco interiore capace di ardere anche quando la tempesta è vicina. Ormai è rimasta solo una flebile fiammella, protetta da una teca di vetro che, di conseguenza, ti isola da chiunque.

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