Le Generazioni Future? Un Esercito Di Hikikomori

Tragicomico
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Hikikomori” è un termine giapponese e il suo significato equivale a “stare in disparte“. Viene utilizzato in Giappone dalla metà degli anni ottanta per riferirsi ai quei giovani (tra i 12 e i 30 anni) che decidono, per svariati motivi, di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi. Periodi che possono durare mesi o, addirittura, anni. Come ci si ritira? Rinchiudendosi nella propria camera, cercando di avere un contatto diretto con il mondo esterno il più possibile pari a zero.

Nel Paese del Sol Levante il numero di Hikikomori ha da poco raggiunto la preoccupante cifra di un milione di casi, anche perché molti di quei giovani ora sono diventati adulti. Ma è sbagliato considerarlo un fenomeno limitato soltanto ai confini giapponesi. Secondo una prima mappatura, infatti, si ritiene che in Italia ci siano almeno 100 mila casi.  Un’enormità! Un disagio sociale che sta colpendo, in maniera particolare, tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo. Come un boomerang. Il progresso, da sempre, ha un prezzo da pagare.

Ho deciso di parlarne in questo articolo per far luce su un fenomeno sociale in forte ascesa. A mio avviso molto preoccupante, e attenzione, preoccupante non perché mi permetto la sfacciataggine di giudicare colui che viene identificato come un Hikikomori, ma nella misura in cui questa società ormai avulsa, sempre più tecnologicamente evoluta ma impoverita di valori umani e culturali, dedita soltanto al progresso e al consumismo, si sia dimenticata di crescere le nuove generazioni, convinti che una generazione sia un agglomerato di massa e non un insieme di individui e, più precisamente, un insieme di esseri umani.

Perché non si nasce Hikikomori, ma lo si diventa. Come? Non c’è una causa precisa, ma un insieme di cause che hanno un denominatore comune: la nostra società occidentale, appunto! Spesso gli Hikikomori sono giovani ragazzi che vivono una crescente difficoltà e demotivazione nel confrontarsi con la vita sociale, fino a un vero e proprio rifiuto della stessa.

Il rifiuto di andare a scuola è uno dei primi campanelli d’allarme. Un rifiuto che nasce dalla forte competizione a cui sono sottoposti questi ragazzi e a volte basta un voto inaspettato, negativo, un attrito con i professori o compagni, una forte delusione insomma, per alterare il loro precario equilibrio esistenziale. Senza tralasciare il fenomeno del bullismo che accentua ancora più la questione.

La scuola non deve avere il compito di standardizzare, omologare, ma di valorizzare i singoli talenti che ognuno di noi possiede. Ne avevo già parlato in questo mio articolo: “Cambiare Il Modello Educativo: L’Insegnante Diventa Maestro Di Vita”. E se ciò non dovesse accadere, allora l’abbandono scolastico nei prossimi anni sarà destinato a crescere drammaticamente, e ci ritroveremo a chiederci, ancora una volta, come e dove abbiamo sbagliato.

Bisogna capire, infatti, che la manifestazione concreta di una difficoltà adattiva non è solo a livello sociale, ma spesso anche esistenziale. In parole povere: una società che ti opprime, che non ti lascia la libertà di essere e di manifestare i tuoi talenti, non è una società libera. Insorgono così la sofferenza, il disagio, la demotivazione e l’apatia verso un modello di vita contemporaneo che, dal loro punto di vista (e come dargli torto!) è sbagliato. C’è quindi una perdita di senso rispetto al perseguimento di tutti quegli obiettivi sociali considerati come necessari e obbligati.

Devi essere il migliore della classe“, “Devi laurearti”, “Devi trovarti un lavoro come si deve“, “Devi sposarti“, “Devi metter su famiglia“, “Devi essere presentabile”, “Devi ubbidire al tuo capo” sono tanti “devi” che vanno a creare delle crepe nei ragazzi più giovani, soprattutto quando l’aspettativa dei “devi” non è rispettata. E al riguardo di questa competizione esasperata ne parlo anche nel mio libro “Schiavi del Tempo“.

Ragazzi e ragazze si trovano così a dover “colmare virtualmente” il gap che si viene a creare tra la realtà e le aspettative di genitori, insegnanti e coetanei. Da qui la scelta del ritiro, dell’isolamento, nasce il senso di vergogna, di inadeguatezza e di frustrazione. Scatta la molla psicologica del “meglio soli che male accompagnati”.

Gli Hikikomori, per ciò che mi riguarda, non rappresentano una malattia, ma un disagio, non tanto psicologico (spesso sono ragazzi intelligenti, integri e caparbi) bensì sociale. Rappresentano uno dei tanti esiti imprevisti della società contemporanea occidentale, quella che corre per la ricchezza materiale, tralasciando quella esistenziale. L’Avere che sovrasta l’Essere. E questi sono i risultati, ragazzi che preferiscono isolarsi, chiudersi in se stessi, perché non capiti, non coltivati, non considerati per ciò che sono. Una società sempre più complessa, più competitiva, più arrogante ed anche più tecnologica. Da qui i sentimenti d’odio verso le sorgenti del proprio dolore.

Ma attribuire la colpa del disagio alle nuove tecnologie, di cui gli Hikikomori fanno un largo uso, può essere un errore a mio avviso. L’intenso uso di internet è una conseguenza, non una causa del disagio. Può portare ad un prolungamento del periodo di isolamento, ma le cause che ti portano a diventare un Hikikomori sono molteplici e il fenomeno è sorto prima dell’avvento della distribuzione su larga scala di internet e videogames interattivi. Attraverso la tecnologia cercano di ricucire quello strappo sociale che si è venuto a creare. Quindi chiusi nelle loro stanze interagiscono, spesso nascondendosi dietro a dei nickname o falsi profili, per cercare, semplicemente, di colmare un vuoto esistenziale. Ciò significa che, se privati della possibilità di interagire, il loro vuoto non scompare, anzi, rischia di aggravarsi.

Il nostro compito come società deve essere quello di captare e ascoltare questo campanello d’allarme, prima che diventi assordante e incessante. Dobbiamo riflettere sulla questione “Hikikomori” come un’opportunità di crescita a livello esistenziale e umano. Dobbiamo ascoltare la loro protesta, comprendere le motivazioni del loro disagio e correggere quello che non funziona. E chiunque senta la necessita di approfondire e mettersi in contatto con chi studia questo disagio da vicino, consiglio di visitare il sito Hikikomori Italia, un’associazione nazionale di informazione e supporto sul tema dell’isolamento sociale volontario.

Ritengo che la famiglia prima, e la scuola dopo, debbano modificare il loro approccio verso queste nuove generazioni. Non sono un medico e tantomeno uno studioso, ma un semplice osservatore, e da quello che vedo, scopro che non c’è più comunicazione tra genitori e figli. Genitori troppo presi dai loro impegni, sempre di corsa, mille pensieri per la testa, notifiche su notifiche, e non trovano più il tempo per comunicare con i propri figli. Ma se non comunichi, come fai a captare, ad ascoltare, a trasmettere qualcosa? Tutti questi genitori dovrebbero mettersi in ascolto, parlare con i loro figli, senza distrazioni di mezzo, parlare in maniera profonda, sincera, cogliere il disagio ai primi segnali e intervenire.

Idem la scuola, deve riformarsi, capire dove ha sbagliato e progettare nuove forme alternative di istruzione, aprirsi a nuove modalità e possibilità di insegnamento, più flessibili e che tengano conto delle enormi differenze personali presenti in ognuno di noi. Come scrive Pennac in “Diario di scuola: “Il Voto, la malattia infantile dell’educazione. Il voto è la sorgente della paura preventiva, quella che ci portiamo dietro e che non se ne va più. Il voto è la valutazione. È il giudizio. È il sospetto che si annida dentro l’alunno, dentro il maestro. Il voto è la vergogna dell’essere somaro. E genera la vergogna dei genitori. È la vergogna e la resa di un insegnante. È per ultimo la resa di un’intera società. Che finisce solo per preoccuparsi dell’identità, dell’immagine. Di un fantasma”.

È tempo di cambiare, e in fretta, se non vogliamo che le future generazioni siano un esercito di fantasmi, di Hikikomori.

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2 commenti

paolo 13 Febbraio 2024 - 20:23

Sono innumerevoli le cose sbagliate in questa società e tutte da cambiare. Una società senza valori se non quella del tempo e del denaro, se mai fosse un reale valore. Una società senza regole e ricolma di leggi inutili e non applicate, spesso evasive e superficiali. Una società senza educazione ma ricca di corsi che addestrano le persone ad un pensiero unico. Una società che non cura la cultura ma alleva animali senza logica che non sanno difendere neppure la loro prole. Una società dove l’arte è spazzatura ma la chiamano contemporanea e ci ricamano sopra infinite interpretazioni per affermare un valore che non c’è. Una società che sta morendo al pari di un cancro che mangia se stesso. Una società che non è più una società ma un agglomerato di fantasmi.
Certo, è tempo di cambiare rotta ma non è la società a dover cambiare ma l’individuo, in quanto il problema, come sempre, nasce dal singolo e non dal gruppo. Il gruppo nasce dall’aggregazione e serve solo a dar forza alle abitudini, ai pensieri unici anche se non sono del main-stream, a credersi nel giusto, a ripetere gli stessi errori. Tutti corrono e non sanno di correre, ma dove corrono? Forse non corrono ma scappano. Scappano da una società che sta morendo, scappano dalla morte, purtroppo però non si scappa né dalla società, né dal passato, né dalla morte. Lo sappiamo, eppure si continua a scappare.

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Tragicomico 15 Febbraio 2024 - 18:19

Grazie del tuo commento Paolo, in effetti rinchiudersi in una stanza equivale a scappare, dagli altri e da se stessi.
Ha un valore se diventa una situazione momentanea per riordinare le proprie idee e cercare di fare pace con se stessi, per perdonarsi quando si è stati all’altezza di ciò che si voleva essere – o che gli altri volevano che fossimo!
La stanza diventa invece un lager nel momento in cui ci si isola dal mondo, perché a stare da soli e isolati per lungo tempo si diventa sempre più fragili e incapaci di dare una crescita alla propria esistenza, che diventerà sempre più vuota e priva di esperienze “reali”, quelle che formano, quelle che offrono un’opportunità evolutiva a ciascun individuo.
È quello l’obiettivo.
È quella la speranza.

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