Il Discorso Rivoluzionario Di Pepe Mujica Sullo Sviluppo Sostenibile

Tragicomico
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discorso rivoluzionario-pepe-mujicaUn discorso rivoluzionario, come solo i grandi uomini sanno fare, quello pronunciato da Pepe Mujica alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile Rio+20, il 21 giugno 2012, mentre era ancora in carica come Presidente dell’Uruguay. Mujica ha pronunciato a braccio un discorso in cui ha denunciato l’assurdità del mondo in cui viviamo, basato sull’ipocrisia di una civiltà che si preoccupa dello sviluppo sostenibile, mentre promuove il modello di consumo e spreco delle società ricche. Una civiltà “tragicomica”, che da un lato proclama la fratellanza e dall’altro si basa sempre più sull’economia di mercato con la sua concorrenza spietata che, ricordiamolo, “uccide” di fame 37.000 persone ogni giorno.

Un discorso rivoluzionario sul senso della vita umana, sulla felicità, sull’amore e la cura per il nostro povero pianeta. Fatto da un Presidente che durante il suo mandato ha rinunciato a vivere nel palazzo presidenziale, percependo  una piccola quota di stipendio che tratteneva per sé (circa 800 euro) che gli valse il soprannome del “Presidente più povero del mondo”. Ha donato il restante 90% dei suoi introiti ad associazioni umanitarie e persone bisognose. Mujica dichiarò in un’intervista che tale quantità di denaro gli era sufficiente, alla luce del fatto che molti suoi connazionali devono vivere con molto meno denaro. Vive tutt’ora nella sua fattoria alla periferia della capitale, e trovo che sia grazie a persone come queste che sopravvive, per tutti noi, la speranza in un mondo migliore.

Il Discorso Rivoluzionario Di Pepe Mujica (il video):

Ringrazio gli organismi e le autorità provenienti da tutte le latitudini. Molte grazie anche al popolo brasiliano e alla sua Presidente, Dilma Rousseff. Ringrazio la buona fede che, sicuramente, hanno manifestato tutti gli oratori che mi hanno preceduto.

Come governanti, siamo l’espressione dell’intima volontà di avallare tutti gli accordi che questa nostra, povera, umanità possa sottoscrivere. Tuttavia, permettiamo a noi stessi di farci qualche domanda a voce alta.

Per tutto il pomeriggio si è parlato di sviluppo sostenibile, di togliere le immense masse dalla povertà. Ma cosa aleggia nelle nostre menti? Forse l’attuale modello di sviluppo e di consumo delle società ricche? Mi faccio questa domanda: che succederebbe a questo pianeta se gli indiani possedessero la stessa proporzione di automobili per famiglia che hanno i tedeschi? Quanto ossigeno ci rimarrebbe da respirare?

Sarò più chiaro: il mondo ha oggi gli elementi naturali per fare in modo che sette o otto milioni di persone possano avere lo stesso livello di consumo e di spreco che hanno le più opulente società occidentali? Sarà mai possibile? O dovremo forse, un giorno o l’altro, cambiare tipo di discussione?

Perché abbiamo creato un civiltà, quella in cui viviamo, figlia del mercato, figlia della concorrenza e che ha generato un progresso materiale portentoso ed esplosivo. Ma ciò che è nato come economia di mercato, è diventato società di mercato. E ci ha offerto questa globalizzazione, che significa doversi occupare per tutto il pianeta.

Stiamo governando la globalizzazione o è la globalizzazione a governarci? È possibile parlare di solidarietà e di unione in un’economia basata su una concorrenza spietata ? Fino a dove arriva la nostra fratellanza?

Quello che dico non vuol negare l’importanza di questo evento. Al contrario: la sfida che abbiamo davanti è di una magnitudo di carattere colossale e la grande crisi non è ecologica, è politica. Oggi l’uomo non governa le forze che ha scatenato, ma sono quelle forze che governano l’uomo e la nostra vita.

Perché non siamo venuti al mondo per svilupparci soltanto, così, in termini generali, ma veniamo alla vita per cercare di essere felici. Perché la vita è corta e se ne va. E nessun bene vale come la vita, questo è elementare! Però se la vita mi scappa via, lavorando e lavorando per consumare di più, allora la società del consumo ne è il motore.

Perché in definitiva, se il consumo si paralizza o si blocca, si rallenta l’economia, e se si rallenta l’economia appare il fantasma della stagnazione per ognuno di noi. Ma è proprio l’iperconsumo che sta aggredendo il pianeta, e quel iperconsumo genera cose che durano poco, perché bisogna vendere molto.

E allora una lampadina elettrica non può durare più di 1000 ore accesa, però esistono lampadine che possono durare 100mila–200mila ore accese! Però non si possono produrre perché il problema è il mercato, perché dobbiamo lavorare e sostenere una civiltà dell’usa e getta, e così ci troviamo in un circolo vizioso.

Questi sono problemi di carattere politico che ci stanno indicando che è ora di iniziare a lottare per un’altra cultura. Non si tratta di voler ritornare all’uomo delle caverne, né di erigere un monumento al passato, e tuttavia non possiamo continuare ad essere indefinitamente governati dal mercato, ma dobbiamo governare noi il mercato.

Per questo dico che il problema è di carattere politico. Gli antichi pensatori – Epicuro, Seneca, gli Aymara – dicevano: “Povero non è colui che possiede poco; povero è, in realtà, colui che ha infinitamente bisogno di molte cose, colui che desidera, desidera, desidera, ancora e ancora”. Questa è una chiave di lettura di carattere culturale.

Voglio dunque salutare lo sforzo, gli accordi che si stringono e, come Presidente, accompagnerò tutto questo. E li appoggerò, come governante. So che alcune delle cose che sto dicendo “stridono”, ma dobbiamo renderci conto che la crisi dell’acqua e dell’aggressione all’ambiente non sono una causa. La causa è il modello di civiltà che abbiamo costruito e ciò che dobbiamo rivedere è il nostro modo di vivere.

Appartengo ad un piccolo paese molto ben dotato di risorse naturali per vivere. Nel mio paese vivono poco più di 3 milioni di persone e ci sono 13 milioni di vacche, delle migliori al mondo. E 10 milioni di capre stupende. Il mio paese è esportatore di cibo, latticini, carne. È un territorio pianeggiante con quasi il 90% del territorio fertile.

I miei compagni lavoratori hanno lottato molto per le otto ore di lavoro e adesso stanno per ottenerne sei! Però chi ha le sei ore, si trova un altro lavoro, e quindi lavora più di prima. E perché? Perché deve pagare una serie di rate: per la moto, l’automobile. E così paga e paga rate finché si ritrova essere vecchio e reumatico, come me, a cui se ne è andata la vita.

Allora viene da chiedersi: è questo il destino della vita umana? Queste cose che dico sono molto elementari. Lo sviluppo non può andare contro la felicità, ma deve essere a favore della felicità umana, dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane, delle cure ai figli, dell’avere amici, dell’avere il necessario. Proprio così, perché il tesoro più importante che abbiamo è la felicità. Quando lottiamo per l’ambiente, il primo elemento dell’ambiente naturale si chiama “felicità umana”. Grazie.

Pepe Mujica

Spero che questo discorso rivoluzionario, “storico”, umano e profondamente sincero, possa essere di stimolo per tutti noi, miei cari lettori, per comprendere che è importante non perdere di vista il “senso della nostra vita”. Dobbiamo riappropriarci di un’esistenza a dimensione più umana e meno da “macchina”, riscoprire e custodire valori e gesti sinceri che possano essere l’alba di un cambiamento interiore, e che ci portino fuori da un meccanismo che abbiamo innescato, che non ci piace, ma che non riusciamo a fermare, perché non riusciamo più ad immaginare un’esistenza diversa dal vuoto che abbiamo creato!

Povero non è colui che possiede poco; povero è, in realtà,
colui che ha bisogno infinitamente bisogno di molte cose,
colui che desidera, desidera, desidera, ancora e ancora e ancora.
(José Pepe Mujica, “La felicità al potere“)

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